2013-2: VIVERE CON LA DISOCCUPAZIONE

In cerca di lavoro.

In cerca di lavoro.

Convivere con la disoccupazione. E’ questo il nostro destino? La domanda si fa più angosciosa man mano che aumenta la coscienza di essere nel pieno non di una crisi ma di una trasformazione epocale che ha colpito in modo brutale e, soprattutto, improvviso e imprevisto. Nel 2008, quando i default finanziari delle banche americane lanciarono i primi segnali, gli Usa erano vicini al pieno impiego, l’Europa vantava tassi di occupazione quali non si erano più visti dalla fine degli anni Settanta e i Paesi in via di sviluppo portavano nuovo carburante al motore delle speranze.

Nel 2009 era tutto finito. La disoccupazione era oltre il 10% negli Usa, oltre l’8% nei 34 Paesi sviluppati dell’Ocse (2,5 punti più che nel 2007), al 10,5% nella zona Euro. La crisi del lavoro ha ovviamente colpito di Paese in Paese in modo diverso. In Europa, per esempio, Germania, Belgio e Austria sono rapidamente risaliti a livelli quasi uguali a quelli di prima del 2008. Eccezioni geografiche a parte, ovunque la nuova disoccupazione di massa ha devastato la coesione sociale delle nazioni. In Europa, l’impatto della crisi si è scaricato soprattutto sui contratti d’inserimento nel mondo del lavoro o sui contratti a tempo determinato. Il che ha voluto dire separare nettamente le sorti dei giovani da quelle dei meno giovani, quelle dei figli da quelle dei genitori. A fine 2011, nei Paesi della Ue il tasso di disoccupazione dei giovani tra i 16 e i 24 anni toccava il 21%, con le punte incredibili del 45% in Grecia e in Spagna.

Per bloccare la spirale negativa, i Governi hanno messo mano a tutti gli strumenti di politica economica di cui disponevano, cosa che ha ovviamente degradato ovunque lo stato della finanza pubblica. Tra il 207 e il 2009 il deficit dei Paesi Ocse è passato in media dall’1,3 all’8,3% del Prodotto Interno lordo (Pil), provocando ulteriori discriminazioni sociali: nuove categorie di poveri o quasi poveri sono apparse, le protezioni sociali sono state ridotte, gli anziani sono diventati una categoria a rischio, il livello dell’istruzione pubblica e dell’assistenza sanitaria si è abbassato.

Di fronte a questo quadro, gli Usa e l’Europa hanno reagito in modo molto diverso. Gli americani hanno puntato tutto sulla ricostruzione dei posti di lavoro, distribuendo incentivi generosissimi (tutti ricordano il salvataggio a caro prezzo dell’industria dell’auto da parte di Obama) e rinviando a tempi più lontani il risanamento delle finanze pubbliche. Con i risultati che vediamo: la disoccupazione è scesa sotto l’8% giusto in tempo per far rieleggere Obama, che subito dopo, però, si è ritrovato alle prese con il fiscal cliff (baratro fiscale) originato appunto dallo spaventoso deficit del bilancio federale. In Europa, al contrario, si è puntato tutto sulla rapida riduzione dei deficit pubblici, dopo aver schivato di poco il default di un’intera nazionale, la Grecia. Conseguenze: salva la Grecia, salvi anche i Pigs (Portogallo, Italia, Grecia appunto, e Spagna), salvo l’euro ma recessione conclamata. E con la recessione, addio alle speranza di recuperare in breve tempo quel 3,1% in più di disoccupazione accumulato tra 2007 e 2011.

E quindi, ancora: dovremo convivere con la disoccupazione di massa? La risposta è: nessuno sa rispondere. Nessuno oggi sa incrociare i dati sull’allungamento della vita (e delle età pensionabili) con quelli sulla finanziarizzazione dell’economia con lo sviluppo delle tecnologie con le cifre della crisi, e infine trarre un pronostico. Le stesse misure prese un po’ in tutti i Paesi per spezzettare il “posto fisso” in una serie di “posti mobili” e non garantiti, giudicate nella prospettiva degli anni ormai passati, sembrano soprattutto dei provvedimenti d’emergenza, presi per fornire a un sistema industriale asfittico (o, per meglio dire, in crisi d’ossigeno di fronte all’offensiva delle industrie dei Paesi in via di sviluppo) manodopera a basso costo e a milioni di giovani l’illusione di un lavoro. Il risultato è stato un’ulteriore frammentazione sociale, con ormai una generazione di giovani senza una reale professione e una realtà industriale in crisi non meno di prima, mentre prosperano più di prima le rendite finanziarie.

Serve la crescita economica, certo. Ma anche la crescita non risolverà nulla se non si spezza il paradosso per cui chi è inserito nel lavoro e protetto dalle contrattazioni collettive è sempre più inserito e protetto, anche di fronte alla crisi; e chi è fuori, marginalizzato e precario, diventa sempre più marginalizzato e precario proprio a causa della crisi. La vera riforma, quella che chiama in causa oltre ai politici anche le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro, sta qui. Il resto è quasi contorno.

 

 

 

 

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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