IL ’68 DELL’ISLAM COMINCIA SU INTERNET

Qualunque sia il destino di Hosni Mubarak, che si è trasferito a Sharm El Sheikh sperabilmente sulla strada dell’Arabia Saudita, alcune sentenze sono già scritte. Una riguarda gli Usa, l’unica potenza a cogliere lo spirito dei tempi e ad auspicare per l’Egitto, dopo qualche esitazione iniziale, una transizione verso la democrazia. L’altra riguarda l’Europa, che si conferma un coacervo di nazioni senescenti e fragili, terrorizzate dalle novità e ormai incapaci di cavalcare un qualunque vento di speranza e cambiamento.

Due manifestanti durante le proteste anti-Mubarak del Cairo.

Due manifestanti al Cairo durante le proteste anti-Mubarak.

Avrebbe dovuto dire qualcosa, ai vari Berlusconi, Sarkozy, Cameron e Merkel, il fatto che il vero tribuno della rivolta egiziana sia stato Wahel Ghonim, 30 anni, un blogger, animatore del movimento per ricordare un ragazzo ucciso l’anno scorso da un gruppo di poliziotti in borghese. E che uno dei dissidenti più seguiti, anzi inseguiti nell’arresto e nel carcere dalle organizzazioni internazionali, sia stato un altrettanto giovane manager egiziano di Google.

L’Egitto ha 80 milioni di abitanti che per il 52% hanno meno di 25 anni. Se volessimo usare uno slogan, diremmo: questo è il Sessantotto dell’islam. Più seriamente, in Egitto (come in Tunisia, dove le sommosse sono partite dal suicidio di un giovane laureato costretto a fare l’ambulante, e in tutti gli altri Paesi del Medio Oriente) milioni e milioni di giovani non possono più sopportare l’alternativa secca tra la dittatura dei vari Ben Ali e Mubarak e la paternalistica spietatezza dei mullah. Giovani che, almeno nelle grandi città, conoscono l’Occidente e usano le tecnologie (telefonini, internet, social network) per scavalcare agilmente i muri, reali o virtuali, che la conflittualità permanente fra terrore e terrorismo loro impone. Un’Europa degna della propria storia e ancora vitale avrebbe speso tutto il proprio peso economico e diplomatico per aiutare i ragazzi egiziani a imboccare la strada della democrazia e del progresso, della libertà e del liberalismo, cioè per aiutarli ad avvicinarsi a noi. L’Europa reale balbetta, esita, tentenna. Borbotta di pericolo fondamentalista, senza far nulla per sventarlo. Un’Europa che nelle sue espressioni politiche peggiori addirittura elargisce a Mubarak, come ha fatto Berlusconi, patetiche patenti di saggezza e lungimiranza.

La fuga di Ben Ali dalla Tunisia e quella, molto probabile, di Mubarak dall’Egitto segnano una colossale occasione di democratizzazione per tutto il Medio Oriente. Mentre guerre ed embarghi hanno comunque prolungato la permanenza al potere dei peggiori regimi (in Iran oggi ma anche in Iraq al tempo di Saddam), questi scossoni generati dalla volontà popolare mettono davvero in crisi gli apparati di potere. È questo il momento per innescare un positivo effetto domino, senza guerre e con sofferenze per noi e per loro infinitamente minori. I prossimi della lista potrebbero essere lo Yemen o la Giordania, ma ancor più decisivo sarebbe un rivolgimento democratico in Libia. Un Maghreb liberato dalla dittatura avrebbe poi un’influenza decisiva sul Medio Oriente propriamente detto, sul Libano e sugli Stati del Golfo. Potrebbe spingere l’Iraq verso una reale democratizzazione e dare una mano decisiva agli iraniani.

Ma la sentenza più importante che esce dai fatti di Tunisi e del Cairo è questa: nessuno potrà più descrivere le masse arabe come turbe fanatiche, facili alla violenza, isteriche, volubili, prive di personalità, pronte a concedersi al primo turbante di passaggio. Un’Europa vincente avrebbe già capito che i ragazzi del Cairo non hanno nulla da invidiare alla Rivoluzione di velluto dei cechi o a quella arancione degli ucraini. Ma qualcosa vorrà pur dire, se ci passa sotto il naso anche il 1989 della sponda Sud del Mediterraneo.

Pubblicato sull’Eco di Bergamo dell’11 febbraio 2011

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

2 Commenti

  1. Enrico Usvelli said:

    Due cose.
    Sentivo ieri sera, mi pare al GR2, che l’esercito è una grossa potenza economica in Egitto, nel senso che possiede negozi, aziende ecc. Penso pertanto che permetterà solo cambiamenti che non ledano i suoi interessi.

    L’altra cosa è questa. Vedo che tu metti la Giordania sullo stesso piano delle altre nazioni della zona, mentre io pensavo che fosse un gradino più in alto almeno in termini di libertà. Pensi che anche lì prima o poi la gente chiederà cambiamenti?

  2. Fulvio Scaglione said:

    Caro Enrico,
    lè vero quel che dici dell’esercito egiziano. Però è anche vero che esso è fortemente dipendente dagi aiuti americani, e la posizione degli Usa nella crisi è stata piuttosto chiara. D’altra parte io non mi aspetto che domani l’Egitto diventi come Oxford. L’ho scritto diverse volte: un poco meglio (un poco più democratico, un poco più efficiente, un poco meno corrotto) sarebbe già molto.
    Sulla Giordania: ho riletto, hai ragione, la sensazione che dà il mio testo è quella che dici tu. Naturalmente sarebbe sbagliato pensarlo, perché la Giordania è sicuramente meno peggio della Tunisia o dell’Egitto. Anche lì, però, c’è un sistema elettorale (Single non transferable vote; ne ho parlato in novembre nel pezzo intitolato “Dall’Iraq all’Egitto, elezioni o farsa?”) usato solo in tre Paesi al mondo, una monarchia ormai sclerotizzata, e molto malcontento popolare. Insomma, non auspico guai alla Giordania ma mi pare che possa averne.
    Ciao, a presto

    Fulvio

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