Il mese di luglio è stato segnato da un evento eccezionale per l’Iran: lo sciopero dei mercanti del bazar. E’ solo il secondo sciopero del genere dalla Rivoluzione islamica (1979): il primo si era svolto nel 2008 quando il presidente Ahmadinejad aveva proposto per la prima volta l’introduzione di una tassa paragonabile alla nostra Iva, ritirandosi poi in buon ordine di fronte alle proteste dei mercanti.
La tassa fu poi introdotta, ma con un’aliquota relativamente bassa (3%) e con un meccanismo che di fatto la limita alle grandi società. Le agitazioni di quest’anno sono partite dopo che il Governo iraniano ha cercato di aumentare le tasse sul reddito delle persone fisiche del 70%. Dal bazar di Teheran le proteste si sono diffuse a tutto il Paese e sono proseguite anche dopo che il Governo è sceso a più miti pretese: le tasse aumenteranno solo del 15%.
La questione fiscale nasconde, in realtà, un braccio di ferro tra i bazarì (i mercanti del bazar, appunto) e il clero islamico che controlla la Repubblica e, in particolare, il presidente Ahmadinejad che, con i Guardiani della Rivoluzione, ne è il braccio secolare. I primi, che ebbero un ruolo decisivo nel sostenere la rivoluzione dell’ayatollah Khomeini, hanno visto la propria influenza diminuire con la nazionalizzazione di ampi settori dell’economia. Già sospettati di “flirtare” con i riformisti iraniani, con queste agitazioni fanno capire di non essere soddisfatti della politica economica degli ayatollah. Il Governo di Teheran, per parte sua, afflitto dal calo del prezzo del petrolio, vuole estrarre più denaro da una classe mercantile che tuttora dispone di ampi mezzi e riserve. Si tratta in ogni caso di un problema che il presidente Ahmadinejad avrebbe volentieri evitato.