E non è l’Iran il Paese prostrato dalle sanzioni Usa, quindi molto interessato a un rapporto meno conflittuale? Come si spiega, allora, che le milizie filo-iraniane vadano a colpire gli americani? E che gli americani reagiscano indicando proprio i filo-iraniani come bersaglio delle loro bombe?
Questo paradosso potrebbe avere una spiegazione. Secondo fonti bene informate di Washington, proprio sul tema dell’Iran ci sarebbero stati contrasti all’interno dell’amministrazione Biden. Una parte dei consiglieri avrebbe fatto pressioni perché la Casa Bianca offrisse a Teheran una qualche forma di apertura. Per esempio allentare il blocco dei beni iraniani, magari attraverso qualche Paese amico (per esempio la Corea del Sud), senza eliminare le sanzioni. Oppure invitare qualche organismo internazionale (magari il Fondo monetario internazionale) a fornire aiuto umanitario all’Iran, ridotto dalle sanzioni a mal partito anche nei confronti del Covid. Il tutto per dare fiato ai moderati, a Teheran sempre tenuti a briglia corta. Tra l’altro, facevano notare le «colombe» americane, il rischio sul fronte dell’opinione pubblica Usa sarebbe stato minimo, perché era stato il detestato Trump a mandare a monte tutto.
Biden, forse troppo fresco di Casa Bianca, ha esitato e non ha preso iniziative, con il risultato di potenziare i «duri» iraniani, quelli che chiedono il ritiro di tutte le sanzioni americane prima di tornare al tavolo delle trattative. In questo modo, gli attacchi dell’una e dell’altra parte (quelli dei filo-iraniani in Iraq e quello americano in Siria) avrebbero una spiegazione fortemente politica. Da un lato, gli oltranzisti iraniani avrebbero detto coi missili che gli Usa non devono illudersi di prendere l’Iran per la gola. Dall’altro, con le bombe, gli Usa avrebbero spiegato di non avere alcuna fretta, di poter rispondere a qualunque attacco e di non voler trattare alcunché prima che l’Iran abbia smesso di arricchire uranio.
Si tratta ovviamente di ipotesi, nel migliore dei casi di retroscena. Che intanto ci dicono una cosa. E cioè che nemmeno per Biden esistono pasti gratis, che il gran parlare fatto in queste settimane sul ritorno in grande stile degli Usa e sul rilancio della diplomazia multilaterale andrà sostanziato con qualcosa di più delle belle parole. Anche l’effetto di certi fuochi d’artificio, per esempio le rivelazioni sul ruolo del principe saudita Mohammed bin Salman nell’assassinio del giornalista oppositore Kashoggi, si spegnerà presto se non suffragato da azioni concrete.
L’Iran, e il contenzioso sul nucleare per usi militari, è proprio un terreno su cui Biden potrà e dovrà misurare la propria statura di presidente. Trump aveva disdetto l’accordo sulla base di due ragioni: il sostegno iraniano al «terrorismo» (vedi Houthi nello Yemen e Hezbollah in Libano, oltre che l’appoggio ad Assad in Siria) e la costruzione di sempre nuovi missili. Ma il mondo non era diventato più sicuro con la disdetta del trattato. E nemmeno con l’aumento delle truppe americane nelle basi in Qatar e Arabia Saudita. A Biden avere un’idea migliore. E senza bombe.