Le proteste del popolo iracheno, che in questi giorni torna a mobilitarsi e a scendere in strada, ci dicono che la Primavera araba non è per nulla esaurita. È stata soffocata con le repressioni, il terrorismo e le guerre. Ma è pronta a ripartire ovunque e appena si presenta un varco. D’altra parte non potrebbe andare diversamente. Quasi il 30 per cento della popolazione del Medio Oriente (il che significa poco meno di 110 milioni di persone) ha un’età compresa tra i 15 e i 29 anni e buona scolarizzazione. Ma speranze molto scarse di superare le infinite barriere che si oppongono a un decente inserimento nella vita sociale: dalla disoccupazione al divario di genere, dalla corruzione dei regimi al loro autoritarismo. Fino al complicatissimo salto a ostacoli tra diffidenze etniche, religiose e politiche. Per non parlare, poi, delle guerre e dei terrorismi di cui si diceva prima.
Da questo punto di vista l’Iraq è un caso di scuola. «Liberato» nel 2003 dall’invasione anglo-americana, trasferito il potere dal regime sunnita di Saddam Hussein ai governi dominati dai partiti sciiti, come quello attuale, e consegnato ai riti e ai miti della democrazia senza alcun rimpianto. Da allora è stata redatta, e poi approvata con referendum, una nuova Costituzione. E si sono svolte quattro elezioni politiche (2005, 2010, 2014 e 2018) e tre elezioni provinciali, pasticciate fin che si vuole ma mai giudicate non valide.
Il risultato? Secondo Transparency International l’Iraq odierno è il 12° paese più corrotto al mondo (un progresso, con Saddam era al primo posto) e dal 2003 a oggi più di 450 miliardi di dollari di denari pubblici si sono volatilizzati, con ogni probabilità custoditi nei conti bancari all’estero dei politici locali. Le proteste sono diventate continue, fino ad avere una scadenza fissa. D’estate si manifesta perché manca l’acqua e scarseggia l’elettricità (pensate a un Paese torrido senza frigoriferi e condizionatori). D’inverno perché non si trova (o lo si trova a prezzi stratosferici) il gasolio con cui si riscaldano anche le case. Difficile stupirsi di questo ritorno di Primavera.
Nessuno capisce più dove finiscano gli introiti generati dalle vaste riserve petrolifere. E se qualcuno alza la voce, rischia di prendersi una fucilata. Nelle proteste pacifiche degli ultimi tempi sono state ammazzate da polizia e corpi speciali più di 200 persone.
C’è inoltre una novità significativa. Protagonisti delle azioni di piazza e di questa Primavera non sono più i piccoli e medi borghesi, ma piuttosto gli abitanti dei quartieri poveri, che da massa di manovra dei potenti si sono trasformati in punta di lancia dell’insoddisfazione generale.
Si capisce bene perché, quindi, se le autorità religiose si sono schierate con la nuova Primavera irachena. Il cardinale Louis Raphael I Sako, patriarca della Chiesa cattolica caldea, ha pubblicato un comunicato molto deciso, in cui ha fatto appello «alla coscienza dei responsabili del Paese affinché ascoltino seriamente le richieste delle persone che lamentano lo stato di miseria in cui vivono, il continuo peggioramento della gestione della cosa pubblica e il dilagare della corruzione nell’apparato dello Stato. Per la prima volta dal 2003 le proteste hanno avuto un carattere pacifico e lontano da qualunque politicizzazione, in un modo che ha superato tutte le barriere settarie e ha sottolineato la comune identità nazionale irachena».
Parole chiare. Che valgono per l’attuale governo iracheno come per tutti gli altri governi, anche futuri, della regione. Nessuno può illudersi che le ragioni «nobili» dei sommovimenti del 2011 in Egitto, Siria, Bahrein, Arabia Saudita, e in altri Paesi ancora, siano state cancellate dagli anni e dalle sofferenze. Le attese di milioni di giovani mediorientali chiedono una risposta, che prima o poi dovrà arrivare.