SINAI, L’ISIS APRE LA PORTA SUL RETRO

sinaiMiliziani dell'Isis in Sinai.

 

E di colpo, narrano le cronache, esplose il Sinai: attacchi coordinati di milizie che si richiamano all’Isis, almeno 70 soldati egiziani uccisi presso i posti di confine nel Nord, un’escalation militare nella penisola che si affianca agli attentati nelle città e a due anni di durissima repressione dell’islamismo (e non solo) da parte del regime dell’ex generale Al Sisi.

E’ tutto vero ma non è davvero tutto. Le tribù del Sinai sono da lungo tempo una spina nel fianco per il Governo centrale dell’Egitto. In soli tre mesi del 2012, cioè dalla deposizione del presidente Morsi in luglio alla fine di ottobre, il bilancio degli scontri in Sinai parlava di 80 soldati uccisi, di altrettanti miliziani eliminati (e tra loro una trentina di stranieri) e di centinaia di arresti. I generali egiziani rinforzavano le guarnigioni e i Governi europei invitavano i turisti a disertare le località turistiche. Sarebbe quindi utile non descrivere le stragi degli ultimi giorni come un fulmine a ciel sereno o, peggio, come la prova di ulteriori “vittorie” dell’Isis ma come la conferma di elementi che operano sul campo da tempo.

Sinai e altre frontiere

Oggi l’Isis, come Al Qaeda tra fine anni Novanta e primi anni Duemila, è diventato il grande ombrello sotto cui trovano riparo molte cause anche molto diverse tra loro. In Siria è riuscito a federare i gruppi e gruppuscoli islamisti della rivolta contro il regime sciita di Assad, allargandosi poi all’Iraq grazie alla compiacenza delle tribù sunnite anche lì emarginate dai Governi sciiti. In Libia, soprattutto nell’area di Tobruk, Derna e Bengasi, ha raccolto le aspirazioni delle tribù pronte a giocare in proprio dopo aver rotto, nel 2011, il “contratto” siglato a suo tempo con Gheddafi. Nel Sinai, 61 mila chilometri quadrati di superficie e decine di clan da sempre ribelli al potere centrale, la storia non fa che ripetersi e preparare sviluppi futuri. Al di là di una linea tracciata nella sabbia infatti c’è Gaza, dove l’insoddisfazione della popolazione per l’inefficiente e autoritario Governo di Hamas lascia spazio ai salafiti e a formazioni di un islamismo ancor più radicale, pronte a innalzare la bandiera nera dell’Isis.

Sono alleanze su un piano di parità, non affiliazioni. Tutti questi gruppi, quelli dei Sinai compresi, vanno a caccia di visibilità e di potere e forniscono alla causa truppe e conoscenza del territorio. A loro l’Isis offre ben più di una cornice ideologica o di un marchio dal forte impatto mediatico: contribuisce con la preziosa competenza politica e militare che i suoi comandanti (ex ufficiali di Saddam, veterani dell’Afghanistan e della Cecenia, ex partigiani curdi, fuoriusciti dell’esercito di Assad, ex qaedisti) hanno maturato nelle tante guerre del Medio Oriente e nei contatti con i Paesi (dall’Arabia Saudita alla Turchia) che in questi anni hanno variamente assistito la crescita del jihadismo.

Nei Paesi dove questi accordi sono stati siglati si è puntualmente assistito a un drammatico aumento dell’efficacia militare dell’islamismo: in Siria e in Iraq ma anche in Nigeria (dove Boko Haram ha cooptato i reduci di Al Qaeda per il Maghreb Islamico), nel Mali (la rivolta dei tuareg), in Libia. E adesso nel Sinai egiziano, dove per la prima volta le milizie hanno attaccato con le tattiche e la competenza di un vero esercito.

Il Sinai affaccia sulla Striscia di Gaza, su Israele, sulla Giordania e, attraverso lo Stretto di Aqabah, sull’Arabia Saudita. Il che basta e avanza per dire che il cambio di passo potrebbe causare un vero terremoto. L’Egitto, che non ha ancora risolto il problema dell’islamismo, non può accettare che si formi una specie di Tortuga dell’Isis sul proprio territorio, come non lo potè accettare la Russia con la Cecenia.  Per la prima volta Israele si sente davvero minacciato dai jihadisti e circola addirittura l’ipotesi di un suo intervento militare in accordo con il Governo egiziano. La Giordania, che già rischia di implodere sotto il peso dei profughi della Siria (1,5 milioni su una popolazione di 6,5 milioni), è presa alle spalle proprio mentre progetta di ritagliare una fascia demilitarizzata nel Sud della Siria. E l’Arabia Saudita, già impegnata nella guerra dello Yemen, osserva preoccupata le azioni del genio malefico che aiutò a uscire dalla lampada. Per tutti il problema è sempre quello: per fermare l’idra islamista bisognerebbe tagliarle la testa. Ovvero, combatterla in Siria e in Iraq. Ma pochi sono i Paesi che vogliono farlo davvero. Meno numerosi e decisi, comunque, di quelli che ancor più dell’Isis temono l’Iran e gli sciiti.

Pubblicato si Avvenire del 3 luglio 2015

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Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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