Parole forti, quelle del nostro ministro degli Esteri Gentiloni. “Non possiamo accettare che a poche miglia da noi ci sia una minaccia terroristica attiva”. E poi, soprattutto: “Nel quadro della legalità internazionale possiamo anche intervenire”. Evocando la prospettiva di un intervento militare, anche se con la copertura dell’Onu, il ministro è riuscito con una sola frase a trasmettere tutta l’urgenza e la drammaticità della situazione in Libia. Perché le milizie che sventolano la bandiera dell’Isis hanno conquistato anche Sirte, lasciando sotto il controllo del Governo di Abdullah al-Thani (l’unico riconosciuto a livello internazionale) solo la roccaforte di Tobruk.
A quattro anni dalla caduta di Muhammar Gheddafi, cui molto contribuì l’intervento della coalizione di 19 Paesi di cui anche l’Italia era parte, siamo arrivati a questo: l’Isis è alle porte dell’Europa e, se pensiamo a Sirte o Tripoli o Misurata o Bengasi, a poche centinaia di chilometri dai confini del nostro Paese. I problemi del Medio Oriente, a lungo lasciati alla gestione (criticata e criticabile, ma comoda) quasi esclusiva degli Usa, ora ci interpellano in prima persona. E se non bastassero i nemici esterni, prosegue l’offensiva di quelli interni: dopo Parigi si spara anche a Copenhagen, e per le stesse ragioni. Nella capitale francese fu strage tra i vignettisti di Charlie Hebdo, in quella danese si tenta il massacro durante un dibattito cui partecipa tra gli altri Lars Vilks, uno dei disegnatori delle cosiddette “vignette blasfeme” pubblicate nel 2005 dal Jylland Posten, lui stesso già sfuggito a un attentato.
Sirte come Kobane
Tra i due fenomeni c’è un nesso evidente. Quando Al Qaeda era potente, i suoi colpi eccitavano la violenza dei fanatici annidati in Europa, e così avemmo gli attentati di Madrid 2004 (191 morti) e Londra 2005 (55 morti), commessi da persone che vivevano o erano cresciute in Europa, non da terroristi venuti da fuori. Con l’Isis sta succedendo la stessa cosa, che si tratti dell’assedio di Kobane in Siria o della presa di Sirte in Libia.
Bisogna quindi intervenire all’origine del problema e abbattere la “casa madre” dell’ispirazione terroristica. Facile a dirsi e difficilissimo a farsi. Nel giro di un anno l’Isis ha preso il controllo di metà della Siria, di un terzo dell’Iraq e ora, dopo Sirte, di una gran parte della Libia. La conquista territoriale ha fornito ai terroristi nuovi mezzi economici (il petrolio per primo), basi per ospitare le nuove reclute, un potere d’attrazione inedito rispetto a qualunque altro gruppo armato precedente, come le centinaia di giovani partiti dall’Europa per la Siria dimostrano.
Per cui, l’intervento militare che si affaccia nelle parole del ministro Gentiloni non è un’ipotesi di scuola o una vaga minaccia ma una mossa che sembra farsi sempre più probabile, se non indispensabile. Ma poiché in Libia siamo già intervenuti nel 2011 e i risultati sono sotto gli occhi di tutti, e dall’Iraq all’Afghanistan abbiamo spesso vinto la guerra e perso la pace, prima di allertare i generali bisognerà chiarirsi le idee almeno su due punti.
Il primo è che, come l’attuale campagna in Iraq dimostra, i soli bombardamenti non bastano. Se non ci fossero i peshmerga a battersi sul terreno, il disastro sarebbe ancor più grave. Quindi: siamo disposti a mandare i nostri soldati a morire sul campo? Il secondo è più politico: l’Occidente, in Medio Oriente, ha sempre sposato la causa dei Paesi sunniti contro quelli sciiti. Siamo sicuri che sia ancora una buona idea? Quelli dell’Isis ( in siria come in Libia) sono sunniti come pure quelli di Hamas, i talebani e i Fratelli Musulmani. Sunnita era Saddam Hussein e sunnite sono le monarchie del Golfo che hanno finanziato e finanziano tutti i movimenti armati islamisti degli ultimi decenni. Fare la guerra senza intervenire sulle cause che la favoriscono sarebbe doloroso e forse inutile.
Pubblicato sull’Eco di Bergamo del 15 febbraio 2015
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