SE IL GREGGIO AFFOGA LA RUSSIA

GreggioTrader alla Borsa di Mosca.

Un amico che da poco vive negli Stati Uniti trasmette il suo entusiasmo via Facebook: un pieno di benzina con l’equivalente di 19 euro! Come non invidiarlo, dall’alto delle tariffe italiane? Si ha però la sensazione che molti, troppi osservatori guardino agli eventi di queste settimane, e in particolare al crollo del prezzo del greggio, con la stessa felicità, un po’ sorpresa e ingenua, dell’automobilista. Lo stesso mio amico, potrebbe chiedersi perché da settimane Wall Street dia così clamorosi segni di nervosismo e perché le massime cariche del Governo Usa, a partire da Barack Obama, stiano bene attente a non cantare vittoria, pur avendo promosso le politiche industriali (il fracking che consente l’estrazione del greggio dalle rocce e dall’argilla) che oggi tanto contribuiscono a far perdere valore all’ex “oro nero”.

Per capire perché l’attuale fase sia gravida anche di rischi, basta guardare alla Russia di Vladimir Putin, ora in preda a una delle crisi più gravi dalla fine dell’Urss. Intanto, sgombriamo il campo da qualche equivoco. Non sono gli oneri dell’annessione della Crimea e della campagna politico-militare in Ucraina, e nemmeno le sanzioni economiche decretate dall’Europa, ad averla azzoppata. E’ stato il crollo del prezzo del petrolio, e soprattutto la sua velocità: a fine giugno un barile di greggio era quotato 112 dollari, ieri 59; a fine giugno i russi dovevano spendere 34 rubli per comprare un dollaro, oggi ne devono spendere 72. Un parallelismo praticamente perfetto.

Greggio e rublo, destini paralleli

Questo significa che la Russia incassa molto meno di prima (il budget per il 2015 è stato tracciato prevedendo il greggio a 95 dollari a barile), quindi lo Stato taglia sui servizi e i cittadini fanno più sacrifici. Che le aziende russe fanno tripla fatica nel ripagare i debiti contratti in valuta o nell’ottenere un ritorno da investimenti fatti in tempi molto migliori. Che la Banca centrale di Russia sta bruciando le riserve (già 100 miliardi di dollari, sui 450 accumulati) per limitare i danni al sistema economico. Il tutto senza prospettive di riscatto a breve termine, perché i dodici Paesi dell’Opec (come peraltro anche la Russia) rifiutano di ridurre la produzione di greggio per far risalire il prezzo.

In più, c’è l’accerchiamento politico. Dell’Europa e delle sue sanzioni sappiamo tutto. Per il resto basterà dire questo: il ministro delle Finanze dell’Ucraina, nominato due settimane fa, prima di trasferirsi a Kiev lavorava per il Dipartimento di Stato (ministero degli Esteri) Usa, e ha ricevuto la cittadinanza ucraina qualche ora prima di insediarsi.

Come la Russia, poco più poco meno, oggi sono messi molti Paesi, dentro e fuori l’Opec: Brasile, Venezuela, Ecuador, Iran, Iraq, Nigeria, Angola, Libia. Poco allegri sono anche Messico, Canada, Norvegia, le monarchie del Golfo Persico. Tutti i Paesi, insomma, che dall’estrazione e dalla vendita del greggio traggono sostentamento o ricchezza. Da qui alcune domande. Ci conviene davvero che una simile porzione di mondo sia bruscamente impoverita e, alla fin fine, destabilizzata? Altra questione. Il crollo del prezzo deriva dall’abbondanza di materia prima (gli Usa ora producono quasi quanto l’Arabia Saudita) ma anche dal calo del consumo, soprattutto in Cina e in Asia, a causa della contrazione economica. E’ una buona notizia? No, è pessima, perché la Cina è stata negli ultimi dieci anni il solitario motore della pur stentata crescita globale.

E c’è una terza considerazione. Come i pugili, anche i Paesi in difficoltà fanno di tutto per uscire dall’angolo. La Russia, per esempio, in pochi mesi ha stretto due alleanze strategiche, prima con la Cina e poi con la Turchia, destinate a influire sugli equilibrii mondiali. Sul pianeta delle interconnessioni la storia è tutt’altro che finita, al contrario galoppa. E non lascia da parte nessuno, non accetta angoli ciechi, come in queste ore il clamoroso disgelo nei rapporti tra Cuba e gli Stati Uniti, e il ristabilimento delle relazioni diplomatiche dopo mezzo secolo di embargo, sta a dimostrare. Un colpo sparato là prima poi avrà ripercussioni anche qua. Meglio ricordarsene, anche quando si fa il pieno di benzina.

Pubblicato su Avvenire del 18 dicembre 2014

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Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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