La sanguinosa bufera che si è scatenata in Ucraina poco dopo un primo accordo tra Governo e opposizione di piazza (evacuato l’edificio del Comune di Kiev, occupato dai rivoltosi, in cambio della liberazione di 235 tra gli arrestati) e proprio mentre il Parlamento discuteva della limitazione dei poteri del presidente Yanukovich, conferma quanto già s’intuiva ma nessuno voleva accettare, nell’orgia retorica dell’Europa contro la Russia, la libertà contro la prepotenza, il bene contro il male.
E cioè, che l’ala del movimento violenta e nazionalista, tutt’altro che libertaria e men che meno europeista, che già faceva da punta di lancia alle proteste, è dominante e non ha intenzione di permettere il dialogo tra le parti, tantomeno una composizione del conflitto. A dispetto delle apparenze, la furia di queste ore mimetizza appena un calcolo molto razionale: il tempo gioca a favore del regime, quindi bisogna far saltare tutto. Costi quel che costi in termini di morti e di disgregazione del Paese.
Sulla pelle degli ucraini viene così combattuta una battaglia che ha i suoi stati maggiori all’estero. Quello che conta meno, a dispetto delle apparenze, sta a Bruxelles, capitale dell’Unione Europea. Propugnare l’adesione alla Ue contro il desiderio del Governo nazionale e ponendo condizioni, come la liberazione della Tymoshenko, che nessuno Stato sovrano potrebbe accettare, è segno di malafede o dilettantismo. Più probabile il secondo.
I centri di potere sono Mosca e Washington. La Russia vuole conservare un tassello decisivo di quello che il Cremlino considera “spazio post-sovietico” e un torrione prezioso nella muraglia anti-Occidente che va dalla Belorussia all’Iran, passando appunto per Ucraina, Georgia e Armenia. Per questo, Putin non esita ad appoggiare il regime inefficiente e corrotto di Viktor Yanukovich, anzi, degli Yanukovich, visti gli appetiti insaziabili del figlio Oleksandr.
Washington, invece, cerca di ripetere l’operazione riuscita nel 2004 con l’infelice Rivoluzione Arancione. Quel regime naufragò in fretta per le divisioni tra i protagonisti e la loro generale incapacità, dalla Tymoshenko al presidente Yuschenko (un economista che aveva lavorato per il Dipartimento di Stato e quello del Tesoro Usa), e favorì il ritorno di Yanukovic. Oggi, però, si va meno per il sottile: un politico di primo piano come John McCain, famoso combattente per la libertà, non ha esitato a raggiungere Kiev per dare pubblico appoggio a un vero fascista come Oleh Thyanihbok, leader del partito Svoboda (Libertà), la cui denominazione originaria era non a caso Partito Nazional-Sociale.
A questo punto, pare che i pezzi grossi, Mosca e Washington, piuttosto che cedere preferiscano la divisione dell’Ucraina, con l’Ovest pronto a diventare un Kosovo centro-europeo e l’Est un protettorato russo. Soluzione traumatica, che potrebbe però piacere anche ad altri. L’Ungheria ha qualche pretesa sulla Transcarpatia, la Romania su tre distretti dell’ex Bessarabia, la Polonia ha qualche ambizione a Nord. Con la divisione, inoltre, i gasdotti correrebbero su territori di Paesi amici degli Usa (e, per chi ci crede, dell’Europa) ma il rubinetto resterebbe nelle mani di Mosca. Se tutto questo convenga a 44,5 milioni di ucraini non è chiaro. Ma a nessuno interessa.