Come sempre, l’Occidente legge nel Medio Oriente solo la conferma o la smentita ai propri desideri. E’ successo anche con l’elezione di Hassan Rohani, 73 anni, presidente dell’Iran addirittura al primo turno. Rohani è considerato un “moderato” e come tale applaudito. Non tanto perché ha promesso di limare la soffocante presenza dell’apparato politico-religioso nella vita economica e sociale del Paese, novello Gorbaciov in salsa persiana, ma perché le cancellerie lo ricordano capo della Commissione per le trattative sul nucleare (2003-2005) da uomo di fiducia del presidente Khatami. Moderato Khatami, moderato Rohani (che trattò con la Ue una parziale sospensione del programma), allegri tutti.
Proviamo però a rovesciare la prospettiva. L’elezione di Rohani, se Obama e gli altri credono a ciò che dicono, dovrà avere conseguenze. Ha ancora senso che Israele minacci un attacco militare all’Iran per la questione nucleare? E la Conferenza di Ginevra sulla Siria può svolgersi senza l’Iran?
Inoltre, sarà bene ricordare che lo sviluppo del nucleare, in Iran, è caro non solo agli ayatollah ma al popolo intero, sia nella versione civile sia in quella militare. La prima per sopperire agli embarghi (quello internazionale, lanciato nel 2006, ha fatto crescere il prezzo dei prodotti di largo consumo anche del 50-60%). La seconda per impedire che il Paese faccia la fine dell’Irak di Saddam o che gli sciiti della Mezzaluna fertile (Iran, Irak, Siria, Libano) siano spazzati dal Medio Oriente per l’attacco dei sunniti capitanati dall’Arabia Saudita. Nemmeno lo Eltsin dell’Iran, Hossein Moussawi, che nel 2009 si oppose ad Ahmadinejad nell’elezione poi contestata dalle piazze, aveva in mente di rinunciare al nucleare. Rohani, quindi, potrà forse governare meglio il proprio Paese, e dopo Ahmadinejad ci vorrà poco. Ma non sarà lui a liberare noi dalla solita domanda: che fare con l’Iran?
Pubblicato su Famiglia Cristiana n.25/2013