SINAI, PER L’EGITTO IMPRESA IMPOSSIBILE

Un soldato egiziano nel Sinai.

I droni di Israele uccidono a Rafah, nel Sud della Striscia di Gaza, Eid Hijazi, membro dei  Comitati di resistenza popolare; i compagni di Hijazi, per vendicarlo, penetrano nel Sinai e attaccano un posto di frontiera in territorio egiziano, uccidendo 16 guardie; poi tentano di penetrare in territorio israeliano, ma vengono subito intercettati e decimati dall’esercito dello Stato ebraico. Questa, in sintesi, l’ultima crisi del Sinai.

Un soldato egiziano nel Sinai.

Sarebbe meglio dire: la crisi più recente. Negli ultimi anni, infatti, nella penisola un tempo contesa (fu conquistata da Israele durante la guerra dei Sei Giorni del 1967, restituita quasi totalmente all’Egitto dopo gli accordi di Camp David nel 1979 e totalmente nel 1982) si sono infiltrati predoni, trafficanti di armi, militanti dei gruppi estremisti palestinesi, miliziani di Al Qaeda e salafiti che hanno sfruttato l’inquietudine delle locali tribù beduine e il tradizionale stato di arretratezza del territorio per costruirsi una sorta di base sicura. Una situazione resa ancora più complicata dall’apertura del confine tra Egitto e Striscia di Gaza, appunto a Rafah, decisa subito dopo la caduta di Mubarak: un provvedimento che ha alleviato le penose condizioni di vita degli abitanti della Striscia ma anche favorito ogni sorta di losco traffico.

Il Governo egiziano ha tentato di porre rimedio varando una Authority per lo sviluppo economico del Sinai e offrendo ai beduini condizioni agevolate per l’acquisto della terra. La penisola, peraltro, è di cruciale interesse strategico anche per Israele: per la sicurezza del territorio, come abbiamo appena detto, ma anche per i rifornimenti energetici. Nel Nord del Sinai corre infatti l’Arab Gas Pipeline, il gasdotto che rifornisce Giordania, Siria e Israele (il quale da esso dipende per il 40% del proprio fabbisogno).

La mappa dei Sinai tra Egitto e Israele.

Non a caso, e proprio per queste ragioni, si è visto nel 2010 un fatto straordinario: Israele ha chiesto a uno Stato arabo (l’Egitto, appunto) di schierare più truppe, per la precisione 1.400 soldati in più, proprio nella Penisola. Siamo onesti: Israele non rischia nulla, la sua aviazione ha un controllo totale dello spazio aereo e in ogni caso i 200 chilometri di deserto renderebbero in pratica impossibile qualunque azione via terra delle forze corazzate egiziane. Ma il precedente in ogni caso colpisce.

Il vero problema, per paradosso, sta però nel Trattato di pace firmato da Israele ed Egitto nel 1979. Il Trattato ha un annesso che regola le mosse militari dei due Paesi un tempo nemici. Diviso il Sinai in quattro zone (A, B, C, e D), fu stabilito che nella zona A (la più vicina all’Egitto continentale) potevano essere dispiegati non più di 22 mila soldati egiziani; che nella zona B (quella centrale) l’Egitto poteva schierare fino a un massimo di 4 mila soldati; che nella zona C (confine con Israele) potevano essere schierati solo soldati Onu e poliziotti egiziani; e che nella zona D (territorio di Israele) avrebbero potuto essere schierati 4 mila soldati israeliani.

Il conto è presto fatto. Per controllare il Sinai, vasto 61 mila chilometri quadrati, pari a 3 volte Israele oppure a un quinto dell’Italia, l’Egitto può disporre di meno di 30 mila uomini (quelli previsti dall’annesso del Trattato più le integrazioni del 2010), in larghissima parte peraltro dispiegati lontano dal confine cruciale con Israele. Un’impresa impossibile, considerata tra l’altro la storica ostilità delle tribù locali nei confronti del governo centrale egiziano.

E’ un’altra delle conseguenze, fino a poco tempo fa imprevedibili, del mutamento degli equilibrii politici e strategici in Medio Oriente. E tra le novità da scoprire va messo anche l’atteggiamento del nuovo presidente egiziano Morsi: esponente dei Fratelli Musulmani, da sempre schierati con l’ala più oltranzista del nazionalismo palestinese, Morsi ha decretato la chiusura del confine di Rafah tra Egitto e Striscia di Gaza e la distruzione dei tunnel che collegano la Striscia all’Egitto. Per dirla con le parole della nostra politica, neppure il Governo provvisorio dei militari, abbondantemente finanziati dagli Usa, era andato così a “destra”.

 

 

 

 

 

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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