PUTIN IMBROGLIA MA IL CONSENSO TIENE

Vladimir Putin fa il segno della vittoria.

“Ho vinto una battaglia aperta e onesta”, dice Vladimir Putin, che torna a fare il Presidente (e questa volta con un mandato di sei anni) con una vittoria al primo turno. Naturalmente la battaglia non è stata “aperta”, viste le strategie messe in atto da Russia Unita e da Putin per recuperare il tonfo (- 16%) delle elezioni politiche di dicembre, e nemmeno “onesta”: gli osservatori internazionali sono piuttosto compatti nel denunciare pressioni indebite, quando non veri e propri brogli. E le proteste sono state vibranti fin dalle prime ore dopo il voto.

Vladimir Putin fa il segno della vittoria.

Bisogna però con onestà riconoscere che Putin mantiene uno zoccolo duro di consenso tutt’altro che irrilevante. Facciamo qualche ragionamento a spanne. I primi exit poll l’hanno dato vincente con il 60/65% dei voti. Quanto possono aver “pesato” le scorrettezze elettorali? Un 15%? Quanto serve per vincere al primo turno (obiettivo dichiarato del regime, che non poteva tollerare un’altra bocciatura dopo quella di dicembre), certo. Ma il resto sarebbe comunque bastato per vincere comunque.

Altro ragionamento non scientifico: quel vecchio arnese di Gennadyj Zjuganov, il più votato dopo Putin, ha preso il 17% dei voti circa. E’ possibile credere che senza brogli avrebbe vinto? Che il suo consenso elettorale di vecchio comunista sostanzialmente buono a nulla (dal punto di vista politico) possa essere superiore a quello di Putin? Che il suo fascino di conservatore “puro e duro” possa essere più efficace di quello di un conservatore smagato e moderno come Putin?

Questa considerazione dovrebbe spingere le opposizioni a riflettere sul proprio parziale successo. Hanno tirato un mattone nella vetrina del regime (le proteste sui diritti civili), ma il proprietario del negozio non è cambiato e non ha intenzione di ritirarsi dagli affari. Per avere risultati migliori bisognerebbe che tutti tirassero i mattoni verso lo stesso obiettivo, cosa che non può succedere se in piazza scendono insieme comunisti e punk, genietti del computer e vecchie babushki inferocite dal caro vita.

Si può temere, al contrario, che sia il Cremlino di nuovo abitato da Putin a pensarci sù. Con il rischio che quella piccola scheggia di volontà riformatrice sopravvissuta al quindicennio putiniano non solo non rinasca ma venga definitivamente seppellita in nome di un calcolo: chi oggi ha votato Putin, ha fatto una scelta di memoria e di paura. Memoria degli anni in cui il reddito, grazie all’esportazione di gas e petrolio, cresceva neppur tanto lentamente. E di paura per una stagione che potrebbe esser nuova ma anche instabile e incerta. Se Putin si aggrappa a questo, e rinuncia a cambiare almeno in parte il sistema economico nazionale, la Russia conoscerà giornate difficili.

 

 

 

 

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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