OBAMA COME GORBY NELLA FINE IMPERO

Più passa il tempo, più mi pare di vedere in Barack Obama un Michail Gorbaciov in salsa Usa. Già protagonista di una miracolosa corsa alla presidenza, Obama è un politico di eccezionale carisma e di grandi capacità. Ma, proprio come Gorbaciov, non deve lottare per affermare una politica ma piuttosto per salvare un Paese, anzi un impero, che non sarà mai più quello di prima. Compito ancor più difficile perché, come in tutti i crolli del genere, i suoi concittadini non accettano o non capiscono la realtà dei fatti.

Il presidente americano Barack Obama.

Sotto questo segno si è dipanata anche la vicenda del tetto del debito pubblico, enfatizzata oltre misura e necessità. Negli ultimi 51 anni (cioè dal 1960) gli Usa hanno alzato il tetto del debito ben 78 volte. E 5 volte lo hanno fatto negli 8 anni della presidenza di George W. Bush. C’è la crisi mondiale, d’accordo. La ripresa tarda a manifestarsi. La disoccupazione è alta (il 10% è ormai in vista) e l’accordo sul debito, con i tagli alla spesa pubblica, farà perdere altri posti di lavoro. Ma il punto non è (solo) questo.

L’innalzamento del tetto del debito pubblico non turbava i sonni finché tutti erano convinti che gli Usa erano e avrebbero continuato a essere l’attore decisivo sulla scena mondiale. Convinzione che ha cominciato a vacillare solo verso la fine della presidenza Bush, quando una classe dirigente demenziale aveva però già inferto i colpi decisivi a un impero già scricchiolante:  impegnando cioè il bilancio dello Stato in una politica neocolonialista dai costi altissimi (secondo un recente studio della Brown University, 4.400 miliardi di dollari per le sole guerre in Medio Oriente) e lasciando correre l’economia sui binari dell’indebitamento delle famiglie, con l’inevitabile impoverimento del ceto medio una volta che la piramide è franata negli anni dal 2007 al 2009.

Nel frattempo, il crollo del Muro di Berlino (che ha riunito le due metà del mondo) e la globalizzazione (che le ha messe in comunicazione) hanno aperto il varco da cui sono emersi nuovi protagonisti: dalla Cina al Brasile, dall’India alla Russia, dal Venezuela all’Iran all’Indonesia. Il G8, creatura a guida americana, è scomparso, sostituito dal G20, poi dal G2, poi da chissà che. Insomma, tutto l’edificio che gli Usa avevano costruito a partire dalla Secondo guerra mondiale per certificare e promuovere la loro superiorità globale, ha cominciato pian piano a decadere.

Operatori di Borsa in giappone seguono il discorso di Obama dopo l'accordo sul debito.

Qualcuno aveva mai sentito parlare delle agenzie di rating cinesi? Questa volta tutti i quotidiani finanziari del mondo hanno riportato il parere del signor Guan Jianzhong, presidente dell’agenzia Dagong di Pechino, severissimo con la politica Usa. Altrettanto è successo in  Giappone, perché Cina e Giappone, sommati, detengono poco meno del 40% del debito pubblico americano.

Insomma: gli Usa sono sempre uno Stato forte e potente, soprattutto molto vitale, ma non sono più un impero. L’hanno capito tutti, ormai, tranne gli americani, che pensano di tornare prima o poi a vivere come facevano prima, cioè sostanzialmente infischiandosene del mondo intero. La pretesa dei Tea Party ha profondamente influenzato il dibattito sul debito: evitare nuove tasse per i ceti alti e scaricare il peso dei sacrifici sul ceto medio, nella convinzione che la ricchezza dei pochi – libera da costrizioni – prima o poi si trasformi in investimenti produttivi o spese sul mercato interno, cioè in ricchezza anche per i ceti medi.

Ma prima di essere una posizione politica (di “destra”, di “sinistra”, non importa) questa è nostalgia. Nostalgia per l’epoca della Guerra Fredda, quando gli Usa se ne stavano asserragliati nella loro metà del mondo e la dominavano, e tutto correva lungo un circuito chiuso di cui l’America era il primo beneficiario. Adesso un riccone americano può investire dove vuole, fregandosene altamente del ceto medio nazionale. E infatti nel 2010 le corporation Usa hanno creato meno di 1 milione di posti di lavoro in patria e quasi 1,5 milioni all’estero. Il Wall Street Journal ha calcolato che le grandi aziende americane tengono all’estero 1 trilione (cioè 1 milione di miliardi) di dollari, che faranno rientrare solo quando Obama concederà loro un super “scudo fiscale” alla Giulio Tremonti.

Con la nostalgia e con i sogni, come sappiamo bene noi italiani, si possono vincere le campagne elettorali. Ma difficilmente si può governare. Come diceva Calderon de la Barca: “Realtà vince il sogno”.

 

 

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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