POVERA EUROPA, CHE PAURA DELLA LIBIA!

E’ paradossale ma è così: l’Europa ha paura della Libia. I suoi 500 milioni di abitanti stanno appesi alla guerra civile di 6,5 milioni di libici. Il continente del welfare e dei Suv considera con orrore la prospettiva di nuove ondate di migranti (addirittura 300, 500, 800 mila persone, forse 1 milione o più, si sussurra nelle cancellerie) non più trattenute dagli sgherri di Gheddafi. E la politica di Bruxelles chiede la fine delle violenze dopo aver borbottato per una settiman che nessuno, per carità, vuole imporre la democrazia alla Libia. Gli stessi Paesi e, spesso, gli stessi governi che erano prontissimi, or non è molto, ad andare assai più lontano per imporla agli iracheni o, perché no, agli iraniani, se solo Bush avesse voluto.

Italiani rientrati all'aeroporto di fiumicino dalla LibiaNulla come la crudelissima crisi libica svela la sclerosi politica dell’Europa, farcita di movimenti autarchici e xenofobi che la spingono a guardare a qualunque novità come a un pericolo. Spiace dirlo ma chi di Lega ferisce di Lega perisce: i ministri Maroni e Bossi se la prendono con gli altri Paesi Ue che hanno già rispedito al mittente la richiesta italiane di assorbire almeno in parte il flusso di migranti, se arriverà e quando arriverà. Ignorano, i nostri due politici, che anche Francia, Germania, Spagna, Grecia (per non parlare di Austria, Ungheria, Polonia e i Paesi del Nord) hanno le loro Leghe, che fanno la stessa politica della nostra: no a nuovi migranti.

Pochi paiono rendersi conto che il vecchio Mediterraneo è comunque finito. Sotto i colpi delle mitragliatrici e tra le schegge delle bombe che a suo tempo il Rais comprò in Italia, Germania, Usa, muoiono tanti libici che chiedono un po’ più di pane e democrazia. Muore però anche un mondo vetusto, popolato di dittatori crudeli ma decrepiti, appoggiati dai nostri Paesi democratici nell’opera di desertificazione civile, culturale ed economica dei loro Paesi.

La Libia non è solo il caso più emblematico (da 40 anni essa appartiene a Gheddafi, che ne è il dittatore ma anche il proprietario). E’ anche l’architrave dell’assetto che fino a ieri reggeva l’intero Maghreb. Ha tanto petrolio, tante partecipazioni nei salotti buoni della finanza europea, tanta influenza da esercitare aprendo o chiudendo il rubinetto delle migrazioni. Ma mentre negli altri Paesi le dittature individuali o famigliari non avevano comunque escluso altre istituzioni (tipicamente l’esercito, che infatti è stato il regolatore delle crisi in Egitto e in Tunisia), qui la questione è più semplice e crudele: il clan Gheddafi contro il resto del Paese, al Rais o tutto o niente. Il bagno di sangue è inevitabile.

L’Europa che non può ignorare le stragi, ma che priva delle carceri di Gheddafi non ha uno straccio di politica sulle migrazioni, non realizza che è già tutto finito. Se il Rais perde e viene cacciato, il rapporto con i nuovi padroni sarà tutto da inventare. Ma se il Rais resiste e vince, torneremo a trattare con lui come se niente fosse stato? A firmare contratti e accordi? A vendergli armi? A fargli piantare la tenda nel centro di questa o quella capitale, con il solito codazzo di guardie del corpo e ragazze convocate per la lezione di Corano?

Insorti libici nella città di Bengasi.

Insorti libici nella città di Bengasi.

Quando si dice che questo è il 1989 del Maghreb si fa un giusto paragone. Mai il Medio Oriente era stato scosso da una simile ventata di sdegno e di ambizione popolare. Tocca a noi, ora, essere all’altezza dell’occasione. S’intravvede una sponda Sud del Mediterraneo più libera e aperta, più moderna ed efficiente. Dovremmo fare ogni sforzo per tenere aperto lo spiraglio, anzi per allargarlo. S’intuisce che gli Usa sono già al lavoro, secondo il progetto che da un secolo caratterizza la diplomazia americana: mettere sotto tutela il Medio Oriente, le sue genti e le sue risorse.

Si gettano in questo momento i ponti decisivi, si stringono oggi le alleanze decisive per domani. Noi esitiamo. Diciamo no alle violenze (e ci mancherebbe, con i caccia che bombardano la gente nella capitale Tripoli) ma non vogliamo che Gheddafi si offenda. Chi siamo noi 500 milioni di europei, in fondo, per dirgli che deve abbracciare la democrazia?

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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