RENZO ARBORE: L’ITALIA, SECONDO ME…

Ho intervistato di recente, per Famiglia Cristiana, uno degli uomini di spettacolo più noti d’Italia e uno degli italiani più noti all’estero: Renzo Arbore. Persona squisita, artista arguto. Ecco il nostro colloquio.

Renzo Arbore.

Renzo Arbore.

“A Torino, poi, è una specie di prodigio: facciamo l’esaurito appena i biglietti sono in vendita e l’altra sera c’era tutto il teatro a cantare in coro Reginella, e non erano certo i “terroni””. Valeva la pena di beccarlo al volo tra un concerto e l’altro, lui, Renzo Arbore, il personaggio più trasversale che c’è: popolare e intellettuale, per grandi e piccini, alla radio e in tv, tra jazz e canzone napoletana, al computer e al mandolino. E poi a Sud come a Nord, tanto che appunto gli chiedevo dei concerti dell’Orchestra Italiana a Torino e Bologna e Milano (2.300 posti venduti agli Arcimboldi) e se non facesse un po’ paura persino a lui, italiano ad alto gradimento, presentarsi in Padania con la cultura del Meridione.

“Paura non abbiamo”, dice Arbore con una risata e snocciolando gli avamposti nordisti (Lecco, Novara, Asti…) coi teatri per lui pieni. “C’è sempre, ovunque, un pubblico che cerca le cose belle. E c’è una cosa che persino i napoletani hanno a lungo sottovalutato: la bellezza melodica delle loro canzoni, che sono ormai un patrimonio culturale di tutti. Sono nel Dna nostro e in quello di tantissimi stranieri”.

–      L’Orchestra italiana è stata fondata nel 1991. Forza Italia, il partito, nel 1994. Ciampi, il presidente della Repubblica che ha rivalutato il tricolore e l’inno, entrò in carica nel 1999. Arbore, si sente un precursore?

“Nei primi anni Ottanta io feci un programma intitolato “Telepatria International”, che era tutto uno sventolio di tricolori e aveva per la prima volta un pubblico di militari, grazie all’autorizzazione del ministro della Difesa Lagorio. In quel periodo l’Italia la chiamavamo “il nostro Paese” per non dire “patria”…”.

–      Patria sembrava un po’ di destra.

“Sì, era così, chissà perché. Manco si faceva più la sfilata del 2 giugno… Poi, nel 1991, quando fondai l’Orchestra, era già più facile. Sono partito da Napoli, c’era Ciampi con il G7, la città che veniva ancora una volta ripulita dopo un periodo terribile. Infatti il primo disco s’intitolò “Napoli punto e a capo””.

–      Quindi lei non solo ammette ma rivendica.

“Sono patriota e rivendico. E visto che mi provoca, le dirò che il Presidente della Repubblica Napolitano ha scelto l’Orchestra Italiana per festeggiare i 150 anni dell’Unità d’Italia. Ci lusinga moltissimo, vogliamo portare in giro un’immagine classica ma anche elegante del nostro Paese”.

–      Ha fatto tanti concerti all’estero anche per le comunità italiane. Qui da noi c’era un ministero per loro e non c’è più, è uscito qualche scandalo, abbiamo scoperto di conoscerli poco.

“Per questioni d’età, ahimé, ho visto salpare gli ultimi bastimenti da Napoli e ho avuto qualche compagno, da bambino, partito con i genitori per i “Paesi assai lontani”. E penso che l’Italia ha fatto un torto a questa gente: erano i più poveri, sono stati costretti ad andarsene, non abbiamo mai riconosciuto il peso delle sofferenze che hanno affrontato e i contributi decisivi che hanno dato alla cultura nostra e di altri Paesi. E’ una ferita ancora da sanare”.

–      Ma nel contatto con loro che cosa la sorprende di più?

“Hanno un amore sviscerato per le origini. Ma poi chiedi: torneresti in Italia? E la risposta è quasi sempre no”.

–      Perché, secondo lei?

“Mah… Si sono abituati a Paesi in cui la vita è più… precisa”.

–      Lei è stato ed è testimonial di iniziative benefiche. Ma noi italiani siamo buoni come ci piace pensare? Dai giornali e dai Tg esce un Paese anche aggressivo, spesso violento.

“Ci sono due tipi italiani, secondo me. Il mondo del volontariato, che conosco attraverso la Lega del filo d’oro e altre organizzazioni, conferma che noi italiani abbiamo il senso della solidarietà verso chi non è fortunato. Ma c’è anche un altro italiano, un tipo un poco ineducato, anche a causa della Tv. Va detto che la Tv può non essere educativa, perché deve divertire, informare, consolare, ma non dovrebbe essere diseducativa, perché è un mezzo che arriva nelle case, mentre per vedere un film violento al cinema devi essere tu a muoverti e pagare il biglietto. La Tv deve avere certi codici che purtroppo non sono ancora stati istituiti. Nulla di illiberale, basta non far credere alla gente che il successo nella vita si ottiene alzando la voce, mettendo in piazza il privato, trasgredendo in modo squallido. Anche l’abitudine alla violenza è pericolosa, contribuisce a far succedere quello che leggiamo sui giornali. Vent’anni fa, se vedevo una testa mozzata, non dormivo per due notti. Ora ci siamo tutti abituati a ben altro”.

–      Però questo altro, direbbe qualcuno, fa audience, fa consenso.

“Sono un artista, non posso accettare che i numeri siano l’unico criterio, che sia bello ciò che vende di più. I numeri servono al commercio, alla pubblicità, a molte utili cose ma non possono dettare il senso della nostra vita. Altrimenti è più bravo Pupo di Ray Charles”.

–      Lei ha fatto programmi di musica come “Doc”. Come li vede i talent show di oggi?

“In verità non male. Perché prima dei talent show c’erano i no talent show, cioè programmi in cui certe signorine diventavano famose non facendo nulla o mostrandosi intraprendenti e loquaci. Chi aveva talento musicale non aveva ribalte, escluso forse Sanremo Giovani, ma per arrivarci ce ne voleva. A Umbria Jazz, di cui sono presidente, abbiamo preso un gruppo, i Cluster, di cui abbiamo scoperto l’esistenza grazie a X Factor”.

–      Una delle sue canzoni s’intitola Pecché nun ce ne jammo in America? Ecco, perché?

“Io sono sempre stato innamorato dell’America. Ma l’Italia è un tale concentrato di bellezze naturali e culturali che bisognerebbe far pagare il biglietto per entrarci. E forse anche per viverci. Purtroppo accanto a questo, e ai talenti di tanti, abbiamo un assetto politico e sociale non molto…”

–      Preciso?

“Ecco, si: non molto preciso”.

Pubblicato su Famiglia Cristiana n.16/2010

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

*

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Top