L’IRAN? LASCIAMO FARE AGLI IRANIANI

Per decenni l’Occidente si è chiesto che cosa bisognasse fare con l’Iran. Bombardarlo? Boicottarlo? Coinvolgerlo in trattative sempre più serrate? Costruirgli intorno una rete politica che gli rendesse sempre più difficile agire, come negli ultimi anni per la questione nucleare? Le rivolte popolari di giugno, dopo la rielezione-farsa di Mahmud Ahmadinejad, e ancor più quelle di questi giorni, innescate anche dal divieto a commemorare l’ayatollah dissidente Alì Hussein Montazeri, dimostrano che la cosa migliore era e resta una sola: non fare niente.


            Le proteste di piazza, non più limitate agli studenti o agli oppositori politici radicali, hanno già ottenuto risultati importanti: il regime che governa l’Iran è screditato agli occhi del mondo per opera del suo stesso popolo; ha perso qualunque autorevolezza con cui giustificare un ruolo di potenza regionale; le sue più lontane propaggini, Hamas a Gaza e Hezbollah in Libano, sanno che il complotto internazionale esiste solo nella stampa di regime e capiscono che il tutore e finanziatore di ieri ha imboccato una crisi che potrebbe anche essere senza uscita, proprio perché nasce da contraddizioni interne al regime e al Paese.

      Il blocco di potere coalizzato intorno all’ayatollah Ali Khamenei è impegnato in un’impresa senza speranza. Da un lato promette la modernizzazione del Paese, con la conversione al nucleare ma anche la scolarizzazione di massa, lo sviluppo delle comunicazioni, l’inserimento delle donne nel sistema produttivo e amministrativo; dall’altro rifiuta le conseguenze di tale modernizzazione e pretende che tutto resti nei confini stabiliti da un’autocrazia religiosa corrotta e incapace di governare un Paese pur ricco di risorse, disposta a offrire alla gente l’unica e pretestuosa valvola di sfogo della sfida militare al resto del mondo.

Il vertice della nomenklatura iraniana. Da sinistra: Ali Ardashir Larijani (presidente del Parlamento), Mahmud Ahmadinejad (presidente della Repubblica) e l'ayatollah Ali Khamenei (la Guida Suprema).

Il vertice della nomenklatura iraniana. Da sinistra: Ali Ardashir Larijani (presidente del Parlamento), Mahmud Ahmadinejad (presidente della Repubblica) e l'ayatollah Ali Khamenei (la Guida Suprema).

      E’ bastato che l’Occidente si liberasse della museruola del bushismo, che le truppe americane cominciassero a ritirarsi dall’Iraq e comunque a rendersi meno visibili, che alla Casa Bianca sedesse un Presidente meno isterico (visto da sinistra) o più timido (visto da destra), è bastato insomma che il ricatto degli ayatollah (ci minacciano, difendeteci) perdesse di vigore, ed ecco che la forza delle cose si è imposta, spingendo migliaia e migliaia di iraniani qualunque, in decine di città, a sfidare la repressione di un regime che ha il primato mondiale delle condanne a  morte rispetto al numero degli abitanti.

      Tutto questo è ancor più significativo se solo pensiamo che per molti anni i servizi segreti occidentali hanno cercato in ogni modo di fomentare i separatismi che covano sotto la cenere sparsa sul Paese dagli ayatollah. Il 44% della popolazione iraniana appartiene a minoranze etniche inquiete e più o meno discriminate: azeri, arabi, curdi e baluchi. Gli Usa e Israele hanno molto aiutato i curdi attraverso la Cia e il Mossad; i servizi segreti pakistani (il famoso Isi), con l’appoggio degli Usa, ha finanziato gli indipendentisti baluchi. L’uno e l’altro gruppo etnico sono musulmani sunniti, quindi ipersensibili alle angherie subite dalla maggioranza persiana e sciita. Il risultato di tali attività segrete sta in una serie di attentati alle caserme dei pasdaran, nulla di paragonabile per impatto a ciò che accade nelle città dove la borghesia intellettuale e mercantile, alleata a una frangia dell’aristocrazia religiosa, grida “basta” nel più clamoroso dei modi. La vicenda iraniana è ancora lontana dalla conclusione. Ci saranno altre pagine drammatiche e forse sanguinose. Di una cosa sola si può esser certi: a Teheran è già cominciata un’altra storia.

Pubblicato sull’Eco di Bergamo del 29 dicembre 2009

Un'immagine degli scontri tra gruppi di protesta e forze di sicurezza a Teheran.

Un'immagine degli scontri tra gruppi di protesta e forze di sicurezza a Teheran.

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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