Una collega esperta di cultura spagnola ha visto in anteprima la “Carmen” che proprio in queste ore inaugura la stagione lirica della Scala. E ci racconta che…
Prima l’Aida, nel 2006. Stasera, 7 dicembre 2009, la Carmen. Le opere più conosciute e popolari sono dunque tornate a inaugurare la stagione lirica della Scala di Milano. La scelta del direttore artistico Stephane Lissner sembrava fin troppo tradizionale e commerciale: bando agli intellettualismi da melomani, spazio alle arie più amate e orecchiabili, quelle che avvicinano la gente comune e soprattutto i giovani. Così, all’anteprima di venerdì, dedicata proprio ai ragazzini, è stato un tripudio. Carmen è piaciuta tantissimo. Ma forse, per molti di loro, si trattava del primo incontro con la passionale sigaraia gitana di Siviglia e soprattutto del primo ascolto della maestosa, dolce, disperata musica di George Bizet.
Il compositore francese, morto a 36 anni nel 1875 proprio poco dopo la prima di quest’opera, di Carmen aveva un’idea forte e precisa. Lui, uomo dell’Ottocento, aveva scoperto l’esotismo delle ballerine di flamenco nei primi cafè cantant spagnoli, gli antesignani dei tablao di oggi, ed era rimasto affascinato dal loro orgoglio e dal loro senso nomade di libertà. Ed era stato sicuramente impressionato dalla spavalderia dei toreri, che aveva immortalato per sempre nella marcia dedicata a Escamillo. E poi il grido di Carmen, meglio morta e libera piuttosto che del povero Don Josè. E, di conseguenza, la lirica disperazione dell’innamorato tradito. Tutto questo è Carmen. Esotismo spagnolo portato all’estremo, dalle luci e dai toni quasi barocchi. Una Spagna esagerata. Ma una Spagna vera. Da nacchere nell’orchestra. E da danze spagnole coreografate tra i movimenti del coro.
Emma Dante, regista di questo allestimento scaligero, voleva stupire. E forse qualcuno l’ha chiamata fin lì, alla regia della prima, per creare un evento mediatico. Lei, appena quarantenne e abituata al teatro off, era attesa anche per questo. Come sarebbe stata la sua Carmen? Trasgressiva? Mafiosa? No. E’ stata semplicemente stravolta. Non più Carmen o Carmencita, ma una Carmela o una Concetta. Una siciliana, proprio come lei, Emma Dante. O ancora meglio una donna mediterranea non meglio definita, visto che gli unici movimenti di danza sulla scena somigliano, più che a movenze di bolero o fandango, a una banale danza del ventre.
Da ogni parte ci spiegano che le ballerine di flamenco non ballano sui tavoli (quelli sono spettacolini da turisti) e non alzano mai e per nessun motivo la gonna oltre il ginocchio (sono gitane e provengono da una cultura indiana e araba: scusate, vale la pena di una spolverata di cultura generale per una prima della Scala). Perché allora la signora Dante fa ballare le sue gitane stese sui tavoli, gambe e mutandoni all’aria come in un pessimo can can? Forse è per provocare? Preferiamo provocazioni un po’ meno futili. Vedere alla Scala, dove esistono una grande Accademia con maestri e coreografi e un Corpo di Ballo con magnifici interpreti, un balletto così, da quattro soldi, dava fastidio.
E non era sufficiente la bella voce della promessa georgiana Anita Rachvelischvili, Carmen di appena 25 anni, a farci dimenticare quel contorno. E neanche la disperazione credibile di Don Josè-Jonas Kaufmann a cancellare il disordine che gli girava intorno. Attori, comparse e coro girovagavano come ossessi per il palco senza una coreografia né una direzione. Colpa anche della scenografia fin troppo minimale di Richard Peduzzi, che non avendo né prospettive né piani, costringeva 150 persone a muoversi in uno spazio da teatrino di quartiere.
Emma Dante ha scelto con cura Leila Hafzi, la stilista norvegese che le ha creato l’abito etico scaramantico, con tanto di rapace dipinto a mano, per la prima. Ma non ha fatto altrettanto con i costumi di scena: li ha definiti lei stessa “trappole per topi” e mai definizione ci è parsa più efficace. Nessuno, oggi, apprezzerebbe più la Carmen da iconografia, in abito rosso e nero tutto pizzi e volant. Ma a chi può piacere questa, combinata con un’accozzaglia di cenci così poco all’altezza di un’opera tanto piena di colore. Il colore mancava ovunque. L’unico segno di Spagna e di rosso era il sangue del toro, su due grandi e cruente fotografie di corrida sventolate con vena animalista sul palco. Bene, una provocazione finalmente utile.
Ma, ci spiace dirlo, l’unica Spagna rimasta in questa Carmen è già molto vista. Nessuno può credere che la regista non abbia nella memoria il fantastico flamenco pro-toro (intitolato Bailador in omaggio all’animale che nel 1920 uccise il torero El Gallo) del magico ballerino Israel Galvan. Con tanto di fotografie di corrida sul palco. Così come ci sembra possibile che abbia avuto notizia delle eleganti e tetre processioni, madre e figlie velate di nero in testa, della Casa di Bernarda Alba di Garcia Lorca, come le aveva coreografate il grande Rafael Aguilar.
Se i ragazzini corsi all’anteprima si sono entusiasmati, sarà stato anche per questi piccoli affreschi tragici di Spagna, magari un po’ rubati. Tutti loro, comunque, saranno sicuramente usciti dal teatro arricchiti, grazie alla Carmen e alla sua sublime bellezza. Valorizzata dalla impeccabile direzione di Daniel Baremboim.
di Giusi Galimberti