ROSSO MALPELO LASCIA LA MINIERA

Ho una bella storia che ne ricorda una brutta. E per ragioni diverse, meritano entrambe di essere raccontate. Ecco la storia bella: nel 2007, il regista Pasquale Scimeca realizzò un film intitolato “Rosso Malpelo”, ispirato all’omonima novella di Giovanni verga, annunciando che gli incassi sarebbero stati devoluti a un progetto di aiuto ai bambini-minatori della regione del Potosì, in Bolivia. A far da garante e coordinatore degli interventi in loco c’era padre Sereno Cozza, dei Missionari Giuseppini.

      Giovani minatori della regione del Potosì (Bolivia).  

      Con una decisione artisticamente coraggiosa, Scimeca (foto sotto) aveva ambientato il suo film “verghiano” tra i bimbi lavoratori boliviani. Con una “decisione” umanamente ancor più coraggiosa, Scimeca ha… mantenuto le promesse: proprio in questi giorni, un primo assegno da 150 mila euro è stato versato ai cinque municipi del Potosì dove saranno costruiti altrettanti collegi-rifiugio per i giovanissimi minatori, che lì potranno studiare e provare a costruirsi una vita migliore invece di rischiare la vita nelle gallerie. Per completare il lato al sole della storia, aggiungo che il film di Scimeca è stato visto da più di 200 mila studenti, e relativi insegnanti, in tutta Italia.

Il regista Pasquale Scimeca.

      Ecco invece il lato all’ombra della storia. Le miniere del Potosì (la città omonima è a 4.090 metri di altitudine, una delle città più alte del mondo) raccontano oggi tante storie drammatiche. Mai, però, come in passato, quando Potosì, proprio grazie alle miniere d’argento, era una delle città più grandi e più ricche del mondo, tanto da guadagnarsi per questo una citazione nel Don Chisciotte di Cervantes e dare origine a proverbi e motti: in spagnolo di cosa preziosa ancora si dice “vale un Potosì”; da noi “vale un Perù”, perché nei secoli passati Potosì era compresa in un dipartimento amministrativo che i colonizzatori spagnoli chiamavano Alto Perù.

      I conquistadores che arrivarono da queste parti a metà Cinquecento non immaginavano la straordinaria ricchezza nascosta nelle viscere delle montagne. E forse non l’avrebbero mai trovata se un ingenuo indio non avesse mostrato agli spagnoli i primi filoni d’argento. Nel 1545 cominciarono i lavori di fondazione della città, che in pochi decenni divenne una metropoli: 200 mila abitanti a fine Seicento, con un palazzo della zecca, 80 chiese e decine di conventi e dimore nobiliari. A lavorare in miniera finirono, ovviamente, gli indios. Nel 1572 la Ley de la Mita (Legge del Tributo, che appunto equiparava il lavoro forzato a una tassa), emanata dal vicere di Toledo, stabiliva i turni di lavoro: 12 ore al giorno col piccone in mano e 4 mesi consecutivi in miniera. Giorno e notte, per lavorare, mangiare, dormire, chiusi in 5.500 gallerie che arrivano fino a 500 metri di profondità, con una temperatura che superava anche i 45 gradi. E’ stato calcolato che tra il 1545 (fondazione della città) e il 1825 (indipendenza della Bolivia) vi siano morti circa 8 milioni di persone. Otto milioni.

      La morìa degli indios spinse i colonizzatori spagnoli a misure d’emergenza: arrivarono navi su navi di schiavi africani. I quali duravano poco più a lungo dei nativi sudamericani ma erano considerati ancor meno, e quindi venivano sacrificati senza esitazione. A questo punto: nella Zecca di Potosì sono ancora conservati gli enormi coni con cui venivano stampate le monete che poi finivano a Madrid. Per muoverne uno erano necessari, all’epoca, quattro muli, che prima o poi morivano stremati di fatica. Per risparmiare sulle bestie da soma, gli spagnoli presero a sostituirle con otto schiavi africani, anche se questi duravano ancor meno. Nel 1987 l’Unesco ha dichiarato Potosì “patrimonio dell’umanità” per i favolosi palazzi che ancora resistono ma anche per gli impianti che hanno testimoniato quell’enorme sofferenza e quello spietato sfruttamento. Nessun riconoscimento, però, elimina il fatto che tuttora la vita media di un minatore boliviano non supera i 45 anni.

Per qualunque informazione sui progetti finanziati dal film “Rosso Malpelo” e coordinati in Bolivia da padre Sereno Cozza: www.rossomalpelofilm.it

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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