Gli agognati biglietti per il 3 novembre arrivano in casa già a luglio e sono il regalo di papà. Ma all’ultimo momento lui si tira abilmente indietro. “Vuoi accompagnarle tu?”, dice con fare suadente, quasi il regalo lo stesse facendo a me. Ed eccomi lì, con decine di altre mamme e papà al concerto di Kevin, Joe e Nick (scusate, ma ho scoperto solo questa sera che si chiamano così). Insomma, dei Jonas Brothers, gli unici e soli idoli di mia figlia tredicenne e di tutte le sue amiche, compagne di scuola, cugine e coetanee.
Tre ragazzini: ventuno, venti e diciassette anni, che a guardarli viene un po’ di tenerezza. Sul grande palco rotante, tutto fasci di luci colorate, sembrano ancor più piccoli. Appena salgono, tra le urla fanatiche di migliaia di ragazzine dagli 8 ai 17 anni al massimo, ti vien da chiederti come possono reggere tutto quel successo. Ma loro sono americani, e in America i ragazzini sono abituati a diventare star. Mica come da noi.
Le ragazzine, le migliaia di fan italiche, piangono, si infilano magliette e fasce nei capelli con le loro foto, mettono in mostra centinaia di cartelli dove c’è scritto in inglese un po’ di tutto, ma il cui senso è uno solo: vi amiamo. We love you! Ma dai, potevate scriverlo anche in italiano, tanto loro sono abituati e capiscono! Qualcuna lo urla anche. Ed è convinta che Nick si sia proprio girato. “Forse non mi ha vista, al buio, ma mi ha sentito di sicuro”, grida alle amiche, che naturalmente confermano.
Siamo state così “fortunate” che l’anello C, quello dei biglietti a poco prezzo che ci potevamo permettere, era già pieno. La polizia ci ha spedite nientemeno che nel parterre. Riesco almeno a evitare che le ragazze a me in consegna (mia figlia e tre amiche di cui ero per l’occasione taxista e guardia del corpo) si infilino nella folla proprio ai piedi del palco. A dissuaderle è la prima coetanea svenuta e portata via in barella ancor prima dell’inizio del concerto. Faccio la mamma: “Ve l’avevo detto che stare sotto il palco è pericoloso, perché si rimane schiacciate”. Intanto penso: cosa credete, sono andata anch’io ai miei tempi ai concerti. E che concerti, mica questi da ragazzini!. Ci teniamo alla distanza di sicurezza di cinque/dieci metri e le mie sono in visibilio. Quando i Fratellini, davvero deliziosi e molto più rocker di quanto mi aspettassi, iniziano a cantare, mi guardo intorno. Tanto non conosco neanche una canzone.
E mi accorgo finalmente della cosa più curiosa. I visetti delle ragazzine e di qualche ragazzo (spesso fidanzatini delle fan) sono indistinti. Tutti uguali e tutti che fissano nella stessa direzione: lacrime agli occhi che non vengono asciugate, cellulari in mano per registrare, bocche spalancate per cantare (ma le parole in inglese le sanno davvero?). Penso che faccine così le avevo viste solo nei vecchi filmati dei concerti dei Beatles negli anni Sessanta. Penso anche all’eresia del confronto e mi vergogno.
In quella massa di visetti carini e indistinti ci distinguiamo soltanto noi, le mamme e i papà sbarcati qui come accompagnatori. Forse perché siamo più alti. Ma non è solo lo svettare che ci rende così fuori posto. Non cantiamo, non balliamo (qualcuno ondeggia i fianchi o muove timidamente un piede, ma non vale), non applaudiamo alla fine delle canzoni, non agitiamo le braccia in alto. Non facciamo quasi niente. Fissiamo il vuoto stupiti. E ci guardiamo incuriositi l’un l’altro. Qualcuno, più antipatico, guarda anche l’orologio. Io no, in fondo mi sto divertendo. E mi rende felice vedere quelle ragazze che amo così contente. Grazie, Jonas Brothers, penso, avete fatto un regalo anche a me.
di Giusi Galimberti (mamma e giornalista)