Decine di arresti in Italia, Spagna, Francia, Germania e Svizzera, in poco più di un anno, di nordafricani sospettati di collaborazione con il terrorismo islamico. La scoperta della cellula che, a Bologna, preparava i kamikaze. L’estradizione verso il Marocco dell’imam di Varese. E adesso, in Algeria, la strage delle reclute e le autobomba nella città di Buira, culmine di un’estate di morte (75 morti in due settimane) ma soprattutto di un biennio che ha visto i gruppi algerini legati ad Al Qaeda crescere in potenza di fuoco e importare la pratica del terrorismo kamikaze.
C’è un legame tra questi fatti? Non lo sappiamo. Sappiamo per certo, invece, che la concomitanza deve preoccuparci. Il Mediterraneo più che un mare è un lago, i contatti (anche clandestini o illegali) sono facili e frequenti. E da anni, ormai, gli economisti e i politici ricordano che il futuro ci attira verso la sponda Sud, dove ci sono riserve energetiche, possibilità di lavoro e commercio (lo sviluppo, nel 2007, è stato del 5%, informa la Banca europea per gli Investimenti), popolazioni giovani che vogliono crescere e affinità storiche e culturali da recuperare.
La guerra al terrore islamico, che da anni impegna l’Occidente, non è persa ma non è ancora vinta. Il caso dell’Algeria è da manuale. Intanto dimostra l’adattabilità e il pragmatismo di Al Qaeda: non ha un luogo d’elezione ma sceglie di volta in volta quello che offre le migliori opportunità, dall’Afghanistan all’Irak, poi in Asia, quindi in Africa. Qui l’organizzazione di Bin Laden è sbarcata nel 2004-2005, quando in Irak la pressione degli Usa cresceva mentre in Algeria il Gruppo salafita per la Preghiera e il Combattimento era messo alle strette dall’esercito. Al Qaeda, inoltre, sfrutta un vantaggio esterno e un’abilità interna. Il vantaggio è l’esistenza, non politica ma geografica e psicologica, di una umma, cioè di una comunità mondiale che nella fede islamica (e nell’arabo del Corano) trova un fortissimo tratto identitario. L’abilità è quella di appoggiarsi alle crisi locali prima per acuirle, poi per piegarle ai propri fini.
Proprio su questo aspetto la “guerra al terrore” deve ancora fare un decisivo salto di qualità. In qualche caso l’urgenza della caccia ad Al Qaeda ha portato a sottovalutare alcuni tratti specifici, ma decisivi, delle crisi locali. Torniamo all’Algeria: alle violenze degli anni Novanta (200 mila morti dopo le elezioni vinte dal Fronte islamico di salvezza) non è seguita una vera riconciliazione nazionale. Le efferatezze vennero dagli islamisti come dalle forze di sicurezza e l’amnistia decretata nel 2006 dal presidente Bouteflika è parsa a molti un modo per mettere i militari al riparo dalle accuse. Quel decennio ha prodotto giovani smarriti, divisi tra l’islamismo e il vuoto del regime, incapace anche di redistribuire le rendite di gas e petrolio. E infatti negli ultimi anni si sono avute molte rivolte giovanili più o meno spontaneee e sono stati scoperti campi d’addestramento al terrorismo per adolescenti e ragazzi.
In questo l’Occidente, se non si accontenta di fornire armi all’uomo forte di turno, può fare qualcosa di decisivo. Nei Paesi non ricchi il senso di giustizia toglie spazio al terrore e fa crescere la società. Il presidente algerino Boutflika se n’è accorto: ha varato un piano per incrementare del 20% le spese sociali, con particolare attenzione per edilizia popolare, scuola e trasporti. Vigilare su Al Qaeda e su certe promesse è quasi la stessa cosa.
Pubblicato su Avvenire del 21 agosto 2008 http://www.avvenire.it