IRAK: E MENO MALE CHE IL PETROLIO NON C’ENTRAVA…

      Ma ve li ricordate i burloni che qualche anno fa volevano convincerci del fatto che l’attacco anglo-americano all’Iraq non aveva nulla a che fare con il petrolio? Poveracci, magari loro ci credevano sul serio. Fatto sta che da anni il Governo iracheno discute di una cosa sola: come e a chi assegnare i diritti di sfruttamento dei giacimenti del Paese, potenzialmente i più ricchi al mondo dopo quelli dell’Arabia Saudita.
      In realtà, il dibattito si era da tempo concentrato sul “chi”, essendo stato il “come” deciso con molto anticipo: i diritti verranno assegnati attraverso i Technical Service Agreement (Tsa), ovvero Accordi Tecnici di Servizio. Si tratta di contratti a tempo determinato (in genere, due anni), studiati affinché l’Iraq possa incrementare in tempi stretti la propria produzione di petrolio, a cinque anni dalla caduta di Saddam Hussein ancora inferiore di 500 mila barili al giorno rispetto alla quota (3 milioni di barili al giorno) normale per i tempi del dittatore. Il Governo iracheno si è stufato, con il petrolio a 160 dollari il barile si possono fare ottimi guadagni e ha deciso di usare i Tsa per arrivare al più presto ai 3 milioni di barili. I Tsa, però, anche un’altra caratteristica: essendo temporanei e avendo carattere d’urgenza, per non dire di emergenza, possono essere stipulati senza gare d’appalto, per semplice decreto governativo. E poiché il governo del premier Nur al Maliki è crivellato di accuse di corruzione, o di corruzione e inefficienza, è facile capire dove l’intera faccenda potrà andare a parare. Soprattutto se a tutto questo aggiungiamo il fatto che il Parlamento iracheno non è ancora riuscito a mettersi d’accordo e a votare una legge sulla divisione dei profitti del petrolio tra le varie etnie e gruppi religiosi.
      Non a caso il Governo Regionale del Kurdistan ha già deciso di mettersi in proprio, e nell’agosto del 2007 il Parlamento dell’entità autonoma curda ha approvato una legge che consente appunto al Governo regionale di gestire il petrolio e il gas in forma del tutto autonoma dal Governo centrale di Baghdad. La formula scelta dai curdi è quella del Product Sharing Contract (Psc), con cui le compagnie petrolifere si accollano i costi di esplorazione dei giacimenti e di ammodernamento degli impianti in cambio di una percentuale (in media il 30%) sugli eventuali ricavi della vendita del petrolio. I Psc, al contrario dei Tsa, hanno in genere una lunga durata, non meno di vent’anni.
      L’iniziativa del Kurdistan è di enorme importanza economica e politica, e non solo per l’Irak. La regione curda, infatti, accampa pretese territoriali sulle regioni di Niniveh e di Kirkuk, nelle cui viscere sarebbero annidate riserve per circa 25-30 miliardi di barili. Sommate a quelle dei giacimenti già ora “curdi”, si arriverebbe a circa 55 miliardi di barili, ovvero a metà delle riserve totali dell’Irak.
      Proviamo ora a guardare la faccenda dal punto di vista delle compagnie petrolifere. Sarà un caso, anzi di sicuro lo è, ma le major scelte dal Governo iracheno per i Tsa sono Exxon Mobil (americana), Shell (anglo-olandese), Total (americana) e Bp (British Petroleum), le stesse (con l’aggiunta della Chevron) che formavano la vecchia Irak Petroleum Company poi espulsa dal Paese con le nazionalizzazioni del 1972. Erano più di 100 le compagnie petrolifere accorse a Baghdad. Le quattro citate sono state scelte per una ragione molto semplice: da anni offrono aiuto e consulenza gratuita al Governo iracheno. Il premio che hanno ricevuto è notevolissimo: intanto, ognuna di esse sarà all’opera con il Tsa sullo stesso giacimento di cui si è già interessata come consulente; inoltre, l’accordo stipulato garantisce loro che domani, quando si dovessero organizzare regolari gare d’appalto, la loro offerta sarà vincente su quelle di ogni altra compagnia purché sia alla pari con le altre; inoltre, quando compagnie concorrenti diventeranno finalmente operative in Irak, queste quattro avranno accumulato un vantaggio in relazioni e conoscenza del terreno che sarà praticamente incolmabile.
      E’ un grandioso investimento sul futuro. I 3 milioni di barili al giorno che l’Irak arriverà forse a produrre valgono comunque molti soldi ma non sono tali da influenzare l’andamento dei prezzi, visto che di petrolio i soli Usa ne consumano 14-15 milioni di barili al giorno. La partita, qui, si gioca intorno alle riserve. Soprattutto se avessero ragioni i pessimisti che parlano di peak oil (ovvero: il mondo sarebbe già arrivato al massimo della produzione possibile di petrolio, d’ora in avanti si può solo declinare), quei 100-110 miliardi di barili sepolti in Irak sarebbero un tesoro da Mille e una notte.
 

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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