AFGHANISTAN, UN G7 NON BASTA

afghanistanIl G7 online dedicato alla crisi in Afghanistan.
A quanto pare, il G7 straordinario sull’Afghanistan, fortemente voluto dal premier inglese Boris Johnson nella qualità di presidente di turno, non ha prodotto nulla di concreto. Anzi, una cosa sì: gli Usa hanno ribadito che completeranno il ritiro entro il 31 agosto e agli altri Paesi (Italia, Regno Unito, Canada, Francia, Germania e Giappone) non è rimasto che prendere atto. Quel giorno, senza le truppe americane a controllare l’aeroporto di Kabul, sarà di fatto tutto finito e l’Afghanistan sarà nelle mani dei talebani. Per il resto, il G7 ha prodotto auspici (l’Afghanistan non torni a essere un santuario del terrorismo), buone intenzioni (continuare i contatti anche dopo il 31 agosto) e qualche velata minaccia: abbiamo gli strumenti per condizionare, e magari punire, un regime talebano che diventasse minaccioso per il proprio popolo e per gli altri.

Quel che resta, però, sono i fatti. Per le teorie, vale quanto diceva Helmuth von Moltke, per trent’anni capo di stato maggiore dell’esercito prussiano: «Nessun piano sopravvive al contatto con il nemico». Prevedere si può solo fino a un certo punto, bisognerà attendere gli eventi, e le mosse dei talebani, per capire che cosa succederà davvero. Alla fin fine, questo G7 ha detto poco sull’Afghanistan e molto su di noi. Ha ribadito, per esempio, che si tratta di un G6 più Uno, dove l’Uno sono gli Usa, senza i quali (o contro il parere dei quali) non si muove nulla, anche in presenza di un disastro politico e militare come quello a cui stiamo assistendo. E ha confermato che la capacità di iniziativa dei Paesi Ue è ancora molto, troppo limitata. Francia e Germania chiedevano un rinvio del ritiro da Kabul ma l’idea che Joe Biden facesse marcia indietro era poco credibile e sotto sotto qualche Governo, al di là delle dichiarazioni di principio, non vede l’ora di chiudere la pratica.

Bisogna dire, invece, che il premier Mario Draghi fin dall’inizio della crisi ha mandato segnali interessanti. In particolare, è stato il primo a sottolineare un dato sostanziale, e cioè che non si può arginare il problema afghano senza parlare anche con Russia e Cina (e, aggiungiamo noi, Turchia). Farà venire l’orticaria agli americani ma è un puro e semplice dato di realtà. I talebani non si sarebbero dati tanto da fare per tessere contatti con Mosca e Pechino se non avessero capito che l’isolamento uccide. E a questo punto, fatto il pasticcio, si tratta anche di non aggravarlo, regalando l’Afghanistan e la sua posizione strategica a Paesi con cui l’antagonismo è già forte e che, a differenza degli Usa e della Ue, vantano buone relazioni con tutti gli altri Paesi dell’area: la Cina con il Pakistan, la Russia con l’Iran e il Tagikistan, la Turchia con il resto dell’Asia Centrale.

Da adesso, parlare con i talebani non è più un’opzione ma una necessità. Si può farlo direttamente: gli Usa hanno trattato con loro per anni e trattano tuttora, se è vero che William Burns, direttore della Cia, è volato a Kabul per incontrare Abdul Ghani Baradar, il leader dei talebani. Noi (intesi come Italia, e in un certo senso come Europa) possiamo farlo anche approfittando delle relazioni più distese che abbiamo appunto con Russia e Cina. Draghi, in fondo, ha riportato l’Italia al ruolo che le è sempre stato consono. Quello di un Paese di sicura fedeltà atlantica ed europeista, capace però di (e in un certo senso, autorizzato a) trovare aperture che ad altri Paesi non sono concesse. Non è che Russia e Cina abbiano la ricetta ideale per tutte le infinite e complesse questioni afghane. Ma sono state scelte come interlocutori, ovviamente in funzione antiamericana, dal nuovo regime talebano, ed è un dato di cui non si può non tener conto.

Può anche darsi che Mario Draghi abbia fatto la sua mossa per sottolineare l’importanza del G20, di cui l’Italia ha la presidenza, e che dovrebbe riunirsi in seduta straordinaria in settembre. Poco importa, la politica è questo. In ogni caso da tempo ci si interroga sull’efficacia di un gruppo ristretto come il G7, ovvero sulla pretesa di risolvere crisi mondiali (dal Covid all’Afghanistan) senza coinvolgere la parte di mondo rappresentata da Cina e Russia. Sarebbe il caso, prima o poi, di darsi anche una risposta.

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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