In parte è così. La strategia del regime change e del nation building non ha funzionato in Iraq, non ha funzionato in Libia e non ha funzionato in Siria. Perché avrebbe dovuto rivelarsi efficace in un Paese come l’Afghanistan, che da Alessandro Magno all’Unione Sovietica, passando per l’impero inglese, ha sempre respinto occupanti, invasori e semplici estranei? Ma c’è un elemento da tenere in considerazione. L’Afghanistan è urbanizzato per circa il 20%, il resto della popolazione vive in villaggi e piccoli centri, spesso annidati in luoghi difficili da raggiungere. In queste comunità, l’appartenenza al clan e il rispetto delle tradizioni sono valori fondamentali. Chi ti porta l’acqua potabile e le medicine, o costruisce una scuola per le bambine, è benvenuto ma non al punto da buttarsi dietro le spalle secoli e secoli di consuetudini.
Per questo le immagini da Kabul possono essere vere ma non rappresentative. Nella capitale, e magari non solo lì, c’è una parte di popolazione che ha accolto gli occidentali, si è abituata a loro, ne ha mutuato alcuni usi, magari ha tratto profitto e reddito dal lavoro con loro. Ma nel resto del Paese? Nei villaggi che nessuno racconta? Questo spiega meglio perché, appena usciti gli americani dall’Afghanistan, ai talebani è bastato fare la faccia feroce per mettere in fuga l’esercito afghano e riprendersi il potere. Una larga parte della popolazione non ha accettato il messaggio occidentale e si è fatta facilmente riconquistare dai talebani, che oltretutto portano sulla punta del fucile il ricatto morale della comune appartenenza religiosa.
Si badi bene, però. Dobbiamo aspettarci un giro di vite islamista e una serie di feroci epurazioni. Ma questi talebani non sono come i loro predecessori. Quelli li vidi di persona nel 1997, a Kabul e dintorni. Bruciavano i libri e le musicassette, frustavano le donne, odiavano ogni istruzione che non fosse quella coranica. Il loro medioevo, però, era spinto anche dall’idiozia politica: avevano conquistato il Paese ed erano stati i primi a sorprendersene. Non sapevano che fare e si chiusero in un isolamento che li portò in fretta alla fine. I nuovi talebani, dai loro santuari afghani e pakistani e soprattutto da Doha, capitale del Qatar e da anni sede del loro ufficio politico, hanno tessuto una rete di contatti importanti. Parlano con la Russia, la Cina, la Turchia, con il Pakistan non ci sono problemi. In altre parole, e giustamente dal loro punto di vista, cercano di agganciarsi al treno dei Paesi che si oppongono alla supremazia geopolitica degli Usa. Il che significa che, se questi talebani 2.0 riusciranno a radicarsi al potere, avremo un interlocutore politico in più sulla scena mondiale. Uno di quelli, tra l’altro, non facili da maneggiare.