L’effetto combinato di rivalità geopolitiche, guerre commerciali e daziarie, virus e crisi economica sta rovesciando situazioni che parevano stabili, se non immutabili. Prendiamo la Cina e il suo rapporto con il Medio Oriente. La Repubblica popolare ha da tempo relazioni intense e cordiali con la Repubblica islamica dell’Iran, basate su un partenariato economico più che collaudato. Ma nel primo trimestre del 2020 gli scambi commerciali tra i due Paesi sono crollati del 30,4% rispetto allo stesso periodo del 2019. E le esportazioni iraniane in Cina sono calate addirittura del 52,7%.
Al contempo, si sono clamorosamente rinsaldate le relazioni economiche tra la Cina e Israele, arcirivale dell’Iran in Medio Oriente. Va dato atto al contestato e navigato premier Benjamin Netanyahu di aver costruito con pazienza e astuzia un rapporto che ha tutto per non piacere agli Stati Uniti. Nel 2013 il primo ministro si recò in visita ufficiale a Pechino. Poi nel 2015, contro il parere degli Usa, fece aderire il proprio Paese alla Asian Infrastructure Investment Bank, promossa dalla Cina per sviluppare progetti in Asia, ma anche per contrastare le politiche «filo-americane» delle grandi istituzioni finanziare internazionali. Infine, nel 2017, altra visita a Pechino per la firma di dieci accordi commerciali.
Qualche settimana fa Mike Pompeo, segretario di Stato Usa, si è recato a Gerusalemme proprio per discutere il «caso Cina». In apparenza, con qualche risultato: certi progetti sono stati bloccati, Netanyahu promise che Huawei non avrebbe avuto parte nel G5 israeliano. Resta il fatto che tra il 2008 e il 2018 l’interscambio commerciale tra i due Paesi è cresciuto di quattro volte, la Cina è diventata il secondo partner commerciale di Israele e per la fine dell’anno è attesa la firma di un accordo bilaterale di libero scambio. Ogni anno più di 100 mila turisti cinesi visitano Israele. Dal 2021, in seguito a un accordo firmato nel 2015, sarà lo Shanghai International Port Group a gestire il porto di Haifa, mentre un’altra società cinese sta già gestendo quello di Ashdod. Tra il 2015 e oggi, gli investimenti cinesi nel cosiddetto Silicon Wadi, ovvero nel settore tecnologico israeliano, sono decuplicati.
Tutto questo può stupire. All’Onu la Cina vota sempre contro Israele e a favore dell’Iran. Ma queste sono inezie che alla super pragmatica dirigenza cinese, interessano poco. E poco importano anche a quella israeliana, sicura (a ragione) di essere comunque appoggiata dagli Usa. In tempi di crisi economica nessuno va per il sottile. E c’è di più. A novembre Donald Trump (il presidente che ha «legalizzato» gli insediamenti israeliani e ha portato l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme) potrebbe essere sconfitto. Il suo posto sarebbe allora preso da Joe Biden, che per otto anni è stato il vice di Barack Obama, ovvero il leader americano che ha avuto i rapporti più freddi con Israele e ha raccolto l’aperta ostilità di Netanyahu. In quel caso, un amico di più in Asia potrebbe sempre tornar utile. Anche a Israele.