Il Covid-19 e due grandi Paesi del Medio Oriente, Egitto e Israele. Le autorità del Cairo hanno scelto la strada della negazione. Fino a pochi giorni fa ammettevano ufficialmente solo 166 casi di contagio, un dato non molto credibile visto che quasi un centinaio di stranieri, che erano stati in Egitto, già risultava positivo al virus a metà febbraio. Gli infettivologi dell’Università di Toronto, dove vive una corposa diaspora egiziana, hanno fatto simulazioni basate su dati di compagnie aeree e agenzie di viaggio, incrociandoli con i tassi di infettività. Risultato: pur scartando i casi dubbi, l’ipotesi è che in Egitto ci siano almeno 20 mila persone portatrici del virus.
La corrispondente del Guardian dal Cairo, Ruth Michaelson, ha dato notizia dello studio canadese, e il ministero dell’Informazione le ha subito ritirato l’accredito stampa, chiedendo anche al giornale di ritrattare e scusarsi. Al di là delle ragioni, diciamo così, di “ordine pubblico”, è chiaro che il governo del presidente Abdel Fattah al-Sisi teme le conseguenze economiche della pandemia. L’industria del turismo vale, in Egitto, circa 13 miliardi di dollari l’anno e il blocco farà moltissimi danni.
Ma il vero pericolo viene dalla possibile combinazione tra un sistema sanitario fragile e un sistema carcerario allucinato. In Egitto, oggi, ci sono tra 40 e 60 mila “prigionieri politici”. Già nel 2015, un rapporto del National Council for Human Rights denunciava un sovraffollamento del 300 per cento nelle celle delle stazioni di polizia e del 160 per cento nelle prigioni. Figuriamoci oggi. E figuriamoci quel che potrebbe succedere se il virus dilagasse tra i detenuti.
In Israele, invece, i contagiati ufficiali, secondo i dati del ministero della Sanità, sono circa 700 e due ministri sono in quarantena dopo essere entrati in contatto con una persona positiva al test. Il diffondersi del virus, qui, non è nascosto. Al contrario. Ma la pubblica ammissione è servita anche a introdurre una strategia di contenimento che ora preoccupa molti. Il premier Netanyahu ha messo in campi i servizi segreti, autorizzandoli, di fatto, a spiare l’intera nazione in nome della salute collettiva. Da diversi anni, infatti, Israele ha sviluppato un sofisticato sistema di tracciamento che combina diverse tipologie di dati: la posizione dei telefoni cellulari; le telecamere sparse per le strade, soprattutto nelle città “cruciali”; il monitoraggio della navigazione in Rete, soprattutto attraverso i social network e le ricerche su Google e gli altri motori. Sistema utilizzato finora soprattutto per tenere d’occhio i palestinesi ma che adesso serve per controllare i movimenti delle persone che potrebbero diffondere il virus.
Per far passare il provvedimento senza affrontare un voto in Parlamento, dove non ha la maggioranza, Netanyahu è ricorso alle leggi di emergenza approvate nel 1939 dagli inglesi, durante il loro Mandato sulla Palestina, al momento in cui occorreva combattere il nazismo. Dall’indipendenza di Israele, nel 1948, queste leggi speciali sono state usate soprattutto contro i palestinesi e raramente contro gli israeliani. Mai, comunque, in questo modo collettivo. La magistratura ha deciso che il Govenro dovrà cancellare i dati dopo 30 giorni. Molti, inutile dirlo, temono che ciò non avverrà. E vedono negli attuali provvedimenti contro il virus un rischio grave per la democrazia di Israele.