KURDISTAN E ROJAVA, LE MANOVRE DI ERDOGAN

kurdistanLa bandiera del Kurdistan. È il tramonto definitivo dell'idea di indipendenza?

Con una mossa tipica del movimentismo di Recep Erdogan, il governo della Turchia ha cominciato a rimuovere tutte le misure prese nel settembre scorso per isolare, economicamente e non solo, il Kurdistan iracheno. L’embargo turco era stato attuato per “punire” i curdi dell’Iraq dopo il referendum convocato da Massoud Barzani per proclamare l’indipendenza del Kurdistan.

Per Barzani era stata una vittoria di Pirro. Il “sì” all’indipendenza aveva raccolto il 98% dei consensi ma la reazione internazionale era stata durissima. L’Iraq aveva mosso l’esercito, cacciando i peshmerga dalla regione di Kirkuk, su cui i dirigenti del Kurdistan ambivano a mettere le mani, che pure avevano contribuito a difendere dall’Isis. Gli Usa, da decenni sponsor della causa curda, avevano disconosciuto il referendum. E la Turchia, come detto, aveva isolato il Kurdistan tagliando ogni rapporto. Come risultato, Barzani si era dovuto dimettere e il progetto indipendentistico era finito nel dimenticatoio.

Adesso la parziale marcia indietro di Erdogan, che ha autorizzato la Turkish Airlines a riprendere i voli diretti su Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno, ripristinando così una linea che era stata inaugurata nel 2011 in pompa magna e tra tante speranze e che  permette ai curdi di viaggiare e commerciare senza dover necessariamente passare per Baghdad.

Com’è ovvio, Erdogan non fa tutto questo per bontà o spirito umanitario. Il suo è un calcolo politico: cerca di ricomporre la frattura con i curdi iracheni, stretti nella morsa tra Iraq, Iran e Turchia, mentre infuria la sua offensiva contro i curdi siriani nel cantone di Afrin e, più in generale, contro il Rojava. Offre al Kurdistan un certo sollievo per dividere il fronte curdo e sopire qualunque proposito di solidarietà con il Rojava da lui attaccato.

È una tattica piuttosto trasparente. Ma ha comunque l’effetto di far notare l’intrinseca debolezza del progetto di Grande Kurdistan, unito e indipendente, che da più di un secolo alberga nel cuore di 30 milioni di curdi. Debolezza che non sta solo nella contrarietà dei Paesi del Medio Oriente, perché mai Iraq, Siria, Turchia e Iran acconsentiranno a cedere parte del loro territorio e della loro popolazione per veder nascere un nuovo e potenzialmente concorrente Stato. Ma sta anche nelle divisioni tra gli stessi curdi.

Embargo turco o no, il Kurdistan iracheno non ha mosso un dito per aiutare i curdi siriani del Rojava, che incarnano un modello politico lontano anni luce da quello dei loro confratelli iracheni: democrazia di base, pluralismo politico, etnico e religioso, parità uomo-donna tra i siriani; politica di clan, leaderismo e consociativismo tra gli iracheni, dominati dalle famiglie Barzani e Talabani. Allo stesso modo è piuttosto scarsa la “parentela” tra i curdi iracheni e quelli turchi, i primi a subire le repressioni di Erdogan e anche i primi a servirsi della lotta armata. Ora Erdogan non fa che applicare il principio del “dividi et impera”, così vecchio che secondo tradizione fu inventato da Filippo il Macedone. Principio tanto più facile da applicare quando le divisioni sono già in atto.

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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