La Ghouta, il sobborgo della capitale siriana Damasco di cui tanto si parla in questi giorni, da sette anni è controllato dai miliziani di Jaysh al-Islam, Failak al-Rahman e Jabhat al-Nusra, ovvero da gruppi di terroristi. Su questo non vi possono essere incertezze né margini per i soliti giochini lessicali a base di «ribelli», «insorti» e altri eufemismi. Dal territorio della Ghouta, che è assai esteso, questi terroristi sparano ogni giorno verso i quartieri di Damasco decine, a volte centinaia di missili e colpi di mortaio che colpiscono civili innocenti. Nei giorni che hanno preceduto la tregua, raccontavano religiosi che vivono e lavorano a Damasco, il lancio dei missili era sincronizzato con l’orario di uscita degli studenti dalle scuole, affinché il terrore fosse più ampio e profondo.
Nondimeno, il dramma che da settimane si compie a Ghouta, oggetto di attacchi pesantissimi dell’esercito di Bashar al-Assad che, appoggiato dai russi, vuole riconquistare anche questa porzione di territorio, sta scuotendo la coscienza del mondo. Giustamente.
Dopo decenni di retorica a base di «bombe intelligenti», «incursioni mirate», «operazioni chirurgiche» e altre baggianate di propaganda, è più che ora che i cittadini dell’Occidente si rendano conto che la guerra contemporanea è esattamente questo: sparare su luoghi dove altissima è la probabilità di ammazzare civili. Nella guerra contemporanea le cosiddette vittime collaterali ormai sono i soldati. Per lo più muoiono vecchi, donne e bambini.
È così dappertutto, chiunque sia impegnato nelle operazioni belliche. Si parla tanto (ripetiamolo: giustamente) della Ghouta, ma anche nel cantone di Afrin, dove l’esercito turco si è lanciato in una «operazione antiterrorismo» (come vedete, dobbiamo abbondare con le virgolette affrontando questo tema) contro le milizie curde del Rojava, si hanno gli stessi esiti: pare siano ormai più di mille i civili uccisi dalle cannonate ordinate dal presidente Recep Tayyip Erdoğan.
È stato così ad Aleppo, quando l’esercito regolare siriano e i russi sono passati alla controffensiva fino a riconquistare la parte di città che era nelle mani dei gruppi terroristici. I quali, a loro volta, per tutti i quasi quattro anni in cui sono stati padroni della città vecchia e della periferia orientale, hanno bombardato i quartieri civili dell’altra Aleppo, facendo centinaia di vittime.
La riconquista di Mosul, la grande città della Piana di Ninive, in Iraq, occupata dal sedicente Stato islamico (Isis) per tre anni, ha provocato almeno 1.100 vittime civili secondo certe fonti e addirittura 40 mila secondo i servizi d’informazione curdi. E a bombardare non c’erano Assad e i russi ma la coalizione internazionale guidata dagli Usa e l’esercito regolare iracheno. Però del dramma di Mosul si è parlato pochissimo. Per restare in Iraq: nel 2004, quando i marines americani strapparono la città di Fallujah ad Al Qaeda e altri gruppi terroristici, le vittime civili furono centinaia.
Proviamo a spostarci. In Afghanistan le vittime civili sono tra 1000 e due mila ogni anno, con cifre record proprio nel 2017: secondo le statistiche dell’Onu, per il 60 per cento sono dovute ai talebani, all’Isis e agli altri tagliagole, ma per il 40 per cento comunque causate dalle operazioni militari della coalizione internazionale. E ogni volta che si scatena la guerra nella Striscia di Gaza, i miliziani di Hamas non fanno alcuno sforzo per proteggere la popolazione, anzi, si mescolano ad essa. E l’esercito di Israele, specialista di «incursioni mirate» e «operazioni chirurgiche», provoca ogni volta centinaia di morti tra i civili. Che è esattamente quello che succede ora nella Ghouta.
È una favola orrenda ma ha comunque una sua morale. Seconda me questa: smettiamola di raccontarci che ci sono guerre (magari le nostre) migliori di altre. Oggi la guerra ha una faccia sola: il massacro di gente inerme e innocente. Per far cessare questi massacri non servono a nulla le indignazioni a zig zag, a corrente alternata: silenzio su Afrin, sdegno su Ghouta, silenzio su Mosul, sdegno su Aleppo. L’unica cosa che serve è rinunciare alla guerra come strumento di affermazione. Il resto sono chiacchiere quasi sempre in malafede.