E la signora Aung San Suu Kyi che dice? Che ne pensa il premio Nobel per la Pace dell’anno 1991, la donna dall’aspetto fragile ma dal carattere di ferro laureata a Oxford, impiegata all’Onu ma tornata in patria per fondare (1988) la Lega Nazionale per la Democrazia e opporsi al regime dei generali e da allora rimasta agli arresti domiciliari fino al 2010? Insomma: perché la signora Aung San Suu Kyi non prende posizione sulla segregazione razziale che il suo Paese e il suo Governo praticano contro la minoranza musulmana (sunnita) dei Rohynga? Perché non si oppone alla lenta decimazione di questo popolo, perseguitato dalla giunta militare che lei stessa ha per decenni combattuto?
Ecco che cosa scriveva Amnesty International nel 2004, quando Aung San Suu Kyi era agli arresti: “ La libertà di movimento dei Rohingya è fortemente limitata e alla maggior parte di loro è stata negata la cittadinanza birmana. Essi sono anche sottoposti a varie forme di estorsione e di tassazione arbitraria; confisca delle terre; sfratto e distruzione delle loro abitazioni; e restrizioni finanziarie sui matrimoni. I Rohingya continuano ad essere utilizzati come lavoratori-schiavi sulle strade e nei campi militari, anche se la quantità di lavoro forzato nel Nord dello stato Rakhine è diminuita negli ultimi dieci anni”.
In questi ultimissimi anni, con Aung San Suu Kyi libera e in posizioni di potere, non è cambiato molto: i pogrom anti-Rohynga dei buddisti si sono moltiplicati, sono stati persino scoperti casi in cui decine di profughi rohynga venivano trascinati al largo sulle loro barche e abbandonati al mare dai militari. Nel frattempo, il movimento armato rohynga dei Mujahid si è rafforzato e radicalizzato con i soliti denari in arrivo dal golfo Persico e i campi profughi sono precipitati verso condizioni sempre più drammatiche. E proprio in questi giorni le Nazioni Unite hanno denunciato l’uccisione di almeno mille Rohynga.
Conviene precisare che i Rohynga, oggi circa un milione e 200 mila persone, sono presenti in quasi tutta l’Asia meridionale. E nel Rakhine (cioè nel Nord della Birmania) sono insediati fin dall’VIII° secolo, dall’epoca cioè della prima islamizzazione. Hanno avuto momenti di splendore nel Quattrocento, con regni importanti e potenti, e persecuzioni feroci da parte dei birmani nel Settecento, che lasciarono il Rakhine in pratica spopolato. Non sono, quindi, un accidente della storia. E se certe faccende procedessero per “meriti” storici, loro avrebbero assai più titolo a uno Stato dei kosovari (che l’hanno avuto) o dei tibetani (che lo chiedono, sostenuti a gran voce).
Nonostante le sollecitazioni (per esempio: il Congresso Usa, che le diede la Medaglia del Congresso, la più alta onorificenza americana, ha invitato il Governo birmano a cambiare politica), Aung San Suu Kyi tace e acconsente. E sì che potrebbe dire e fare molto. Finalmente liberata nel 2010, nel 2015 ha vinto da trionfatrice le prime elezioni democratiche diventando nel 2016 prima pluri-ministro (Affari Esteri, Energia, Pubblica Istruzione) e poi addirittura primo ministro (che in Birmania si chiama consigliere di Stato). La politica repressiva che viene applicata di giorno in giorno, quindi, passa per la sua firma di premio Nobel per la Pace. Aung San Suu Kyi non aveva aperto bocca, sui Roihynga, durante l’intera campagna elettorale, per non perdere voti. Purtroppo, non apre bocca neppure adesso, quando ha tutto il poterenecessario per cambiare le cose.
Non l’ha smossa, a fine 2016, nemmeno una lettera firmata da decine di personaggi di livello mondiale, tra i quali molto suoi colleghi Nobel come Muhammad Yunus, Oscar Arias, Jody Williams e Shirin Ebadi, che parlano apertamente di “tragedia umana”, “pulizia etnica”, “crimini contro l’umanità” e si dicono “frustrati” dal fatto che, “a dispetto di numerosi appelli, Aung San Suu Kyi non abbia intrapreso alcuna azione per garantire i diritti civili dei Rohynga”.
Sfuma così il mito della Signora della democrazia. E, in parte, quello della democratizzazione come panacea di tutti i mali. La democrazia birmana è giovanissima. Troppo per non meritare qualche giustificazione. Ma non abbastanza per essere assolta.