CAMERON, LA DISGRAZIA CHE NEMMENO LA UE MERITA

cameronIl premier inglese David Cameron.

Sull’ipotesi di Brexit, ovvero sulla decisione di restare nell’Unione Europea oppure uscirne che nelle scorse ore è stata presa dai cittadini del Regno Unito, si poteva dire di tutto, e infatti di tutto è stato detto. Che sarà una catastrofe ma anche no, forse una passeggiata. Che azzopperà l’economia inglese o invece quella del resto d’Europa, magari sia l’una sia l’altra. Che se gli inglesi sbatteranno la porta, anche altri Paesi lo faranno. E così via, di ragionamento in ragionamento e pure di sciocchezza in sciocchezza. L’unica cosa certa è che questo referendum non doveva essere convocato. Il fatto che i 28 Paesi Ue (più gli americani, che sembrano i più nervosi di tutti) siano stati costretti a stare con il fiato sospeso per quel disastro politico chiamato David Cameron, dimostra a perfezione quanto cinica e inconsistente sia la classe politica che oggi pretende di indirizzare i destini di un intero continente.

Cameron, con questa sciagurata storia della Brexit, ne è diventato il campione. Già l’iniziativa di destabilizzare la Libia nel 2011, d’intesa con il francese Sarkozy e con Barack Obama, aveva dato la misura della sua incoscienza. L’Europa, e l’Italia per prima, da anni pagano a caro prezzo, sotto forma di flussi migratori, traffici illeciti e rischi per la sicurezza, quell’avventurismo tardo coloniale. Ma un simile risultato non bastava. Nel 2013, per ragioni di esclusiva politica interna, Cameron promise agli inglesi un referendum per decidere se stare o no nell’Unione Europea. Referendum (questo, appunto) che nelle sue intenzioni, doveva servire da clava per ricattare la Ue, ottenere condizioni di ulteriore privilegio per la Gran Bretagna e con questo presentarsi trionfante agli elettori.

Il ricatto di Cameron

Il piano non è riuscito. La Ue non ha ceduto. E lo stesso Cameron che nel 2013 prendeva l’Unione Europea a pesci in faccia (si veda il suo discorso di annuncio del referendum), fino a poche ore fa si affannava a spiegare agli inglesi che il benessere loro e dei loro figli dipende dalla decisione di restare dentro l’Europa.

La vicenda di David Cameron dimostra due cose. Nella quasi totalità dei casi, i leader nazionali sono più che disposti a usare la “casa comune” europea come scusa o capro espiatorio dei loro problemi interni. Ciascuno a modo proprio: Cameron con il referendum, l’Austria tirando su il muro al Brennero, la Germania decidendo di aprire ai profughi senza riguardo per i Paesi confinanti, e così via. Ognuno per sé, anche a costo di segare il ramo sui cui tutti stanno seduti.

Perché l’Europa unita (e questa è la seconda realtà) è piena di falle, funziona male, ha perso slancio, non ha visione né immaginazione, manca di una politica estera, è dominata dalla potenza economica tedesca e dalla sua ragioneria. Tutto vero, e altro ancora si potrebbe dire. Ma non c’è politico che non sappia che ancora oggi, con i suoi difetti, la Ue conviene. E infatti Cameron supplica gli inglesi di fermarsi. I greci, con tutte le botte che hanno preso dalla troika, manco si sognano di mollare la Ue. Men che meno ci pensano i Paesi dell’Est Europa, che intascano i miliardi e fanno pure la voce grossa, una pacchia che mai avrebbero sognato. Portogallo e Irlanda, costretti a drastiche cure economiche di tipo greco, sono ancora lì. Controprova: Turchia, Ucraina, Serbia e Albania farebbero carte false per sedersi alla tavolata europea. E in Italia, anche i movimenti che prima ipotizzavano di mollare gli ormeggi, ora si attengono a posizioni assai più prudenti.

E allora, se non abbiamo rispetto per un ideale politico che pare appassito, abbiamo almeno rispetto per il bruto ma concreto utile economico. Perché, come ora dice Cameron, i referendum tipo Brexit, cioè come quello da lui convocato, mettono a rischio il benessere del suo stesso popolo. Giudichiamo tutti insieme se leader come questo possono ridare all’Europa l’impulso e la concretezza che 400 milioni di persone e lo spazio economico più libero e vivace del mondo meritano. O se non sia giunta l’ora di sceglierci rappresentanti migliori.

Pubblicato sull’Eco di Bergamo del 23 giugno 2016

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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