ISIS IN CRISI, IL TERRORISMO NO

isisMiliziani seguaci del generale Haftar in Libia.

Isis, è giunta l’ora della crisi? Il senso delle notizie che arrivano da Libia, Iraq e Siria va tutto in questa direzione. In Libia, le truppe del Governo di unità nazionale e le milizie islamiste di Misurata stanno per completare la riconquista di Sirte, la città portuale che dopo la caduta di Muhammar Gheddafi, nato proprio a Sirte nel 1942, era diventata la roccaforte dello Stato islamico. L’offensiva libica è durata assai meno del previsto, mentre a Fallujah (Iraq) gli scontri continuano. Questa città, feudo del qaedismo sunnita dopo l’invasione americana del 2003 e liberata nel 2004 solo a prezzo di una battaglia durissima, era stata conquistata dall’Isis all’inizio del 2014, ancor prima di Raqqa (la “capitale” dello Stato islamico) e di Mosul. Ora sta per cadere, anche se la popolazione paga un prezzo altissimo. Anche ad Aleppo le sorti dell’Isis sembrano in ribasso, anche se nella grande città, un tempo capitale economica della Siria, gli scontri sono ancora violentissimi e la situazione è complicata dal fatto che russi, siriani e iraniani combattono anche contro altre milizie, più o meno “moderate”, che controllano alcuni quartieri.

Al netto dell’atroce costo in vite umane, si tratta di notizie positive. Eliminare Isis è la condizione necessaria, anche se non sufficiente, per pacificare Siria e Iraq, per avviare le diverse crisi sulla strada della soluzione politica, per stemperare la tensione internazionale. Non c’è potenza, Paese o comunità di Paesi, infatti, che non metta questo risultato tra le priorità della politica estera.

Detto questo, non è proprio il caso di festeggiare. Intanto perché la vittoria finale su Isis è ancora da conquistare. Ed è un’amara constatazione, visto che da due anni decine di nazioni (64 nella coalizione formata da Usa e Arabia Saudita, quattro in quella che comprende la Siria di Assad, la Russia, l’Iran e il Libano) gli portano, o dicono di portargli, una guerra senza quartiere. E poi, soprattutto, perché c’è un po’ di equivoco sul termine vittoria. In altre parole: è grande la differenza tra sconfiggere i miliziani di Al Baghdadi e sconfiggere il terrorismo.

Isis non è tutto

In questi decenni abbiamo affrontato e sconfitto diversi movimenti terroristici, dai talebani ad Al Qaeda, ma il terrorismo islamico è più vivo che mai. Dal 2000 a oggi, i morti per atti di terrorismo sono cresciuti di nove volte. Tra il 2013 e il 2014, il numero dei Paesi che hanno subito almeno 500 morti per atti di terrorismo è passato da 5 a 13. Nello stesso lasso di tempo, gli attacchi suicidi sono cresciuti del 18%. E proprio il 2014 è stato, insieme con il 2007, l’anno peggiore di sempre.

In questa battaglia siamo noi gli sconfitti. Ed è una battaglia che non si concluderà con la sconfitta sul campo dell’Isis. Nel corso degli anni abbiamo visto il terrorismo islamico cambiare pelle con grande facilità. In Asia Centrale, in Medio Oriente, nell’Africa del Nord e in quella sub-sahariana, i fanatici della “guerra santa” sono sempre riusciti a riorganizzarsi sfruttando, di volta in volta, i fronti di crisi che si aprivano in Russia (Cecenia), Afghanistan, Pakistan, Iraq, Siria, Somalia, Nigeria, Mali e così via. Mutavano i nomi, i leader, le modalità, restavano inalterati i propositi e la ferocia. E non solo. Ci sono state stragi in Europa (a Madrid, Londra, Parigi, Bruxelles), negli Usa (dalle Torri Gemelle del 2001 ai coniugi assassini della California nel 2015) e anche in Paesi musulmani che hanno tentato di affrancarsi dal radicalismo come la Tunisia, ispirate ai dettami di quelle milizie lontanissime. E anche in casi drammatici ma poco chiari, come la strage compiuta ieri a Orlando, Florida (50 morti) in un locale gay da una guardia giurata di origine afghana, non riusciremo mai a liberarci dal sospetto che siano stati quegli stessi “insegnamenti” ad armare la mano dello sparatore.

Per cambiare questo stato di cose, e quindi rendere possibile la vittoria vera, quella sul terrorismo, dobbiamo tagliare il cordone ombelicale che unisce i miliziani a chi dà loro da vivere. Ovvero, interrompere le autostrade del denaro che dalle monarchie del Golfo Persico corrono verso l’estremismo armato. Se non faremo questo, avremo sempre qualcuno da combattere: che si chiami Al Qaeda, Isis o con altro nome.

Pubblicato sull’Eco di Bergamo del 13 giugno 2016

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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