Le notizie dalla guerra nello Yemen arrivano a fatica fino ai giornali. quando ci arrivano, scompaiono quasi subito. Ma se scompare in un lampo anche la notizia dell’assassinio delle quattro suore di Madre Teresa (e dei loro 12 collaboratori) che ad Aden lavoravano in un ospizio per anziani, allora siamo messi davvero male. Se nemmeno il carico emotivo di un tale massacro di innocenti riesce a farsi valere, vuol dire che dietro l’orrore c’è una questione “politica” di cui pochi vogliono occuparsi. Quindi figuriamoci se sentiremo parlare di cluster bomb e cose simili.
Ma riepiloghiamo. Le suore sono state uccise ad Aden, il grande porto tra Mar Rosso e Oceano Indiano da cui qualche mese fa le forze fedeli al presidente Abdel Rabbo Mansour Hadi sono riuscite a cacciare i ribelli sciiti Houthi. Hadi (che per sei anni fu il vice del dittatore Ali Abdullah Saleh, a quel tempo amorevolmente accudito dai sauditi) è appoggiato da una coalizione militare di dieci Paesi guidata dall’Arabia Saudita (Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrein, Qatar, Egitto, Giordania, Marocco, Senegal e Sudan), a loro volta sostenuti con armi e intelligence da Usa, Gran Bretagna, Francia e Canada, oltre a un congruo numero dei contractors americani già visti in Iraq. Gli Houthi, a loro volta, sono sostenuti dall’Iran.
Aden come si diceva, è nelle mani dei “governativi” filo-sauditi, che però non riescono a impedire alle versioni yemenite di Al Qaeda e dell’Isis di colpire in modo pesante. Nel dicembre scorso, per esempio, l’Isis aveva già eliminato il governatore della città Jafar Mohammed Saad, saltato in aria insieme con sei guardie del corpo, e il presidente della Corte d’appello Mohsen Eluan. Mentre i qaedisti controllano ancora vaste zone dell’Est del Paese. In gennaio, di nuovo ad Aden, un kamikaze si è fatto esplodere davanti alla residenza di Hadi facendo 12 vittime.
Cluster bomb e politica
In altre parole, l’alleanza già sperimentata nelle fasi iniziali della crisi della Siria (Arabia Saudita e monarchie del Golfo Persico con Usa e Paesi occidentali) sta ottenendo anche nello Yemen gli stessi risultati: poco o nulla nella lotta contro il jihadismo sunnita, poco o nulla contro lo spauracchio sciita, da queste parti rappresentato dai ribelli Houthi. Da notare la diversa valenza del termine “ribelli” tra Siria e Yemen. In Siria, per come sono descritti in Occidente, i “ribelli” sono i legittimi eredi delle proteste della Primavera Araba del 2011 e della contestazione al regime di Bashar al-Assad. Nello Yemen, invece, è successo questo: la Primavera Araba riuscì a far cadere Saleh, ma sauditi e americani, con vari maneggi, riuscirono a organizzare un’elezione che aveva come unico candidato (democratico, no?) appunto Hadi, il vice di Saleh. Gli Houthi chiesero il boicottaggio dell’elezione-farsa, poi parteciparono a una conferenza di pace, infine protestarono contro un’estensione del mandato del presidente fintamente provvisorio Hadi. Loro, però, a differenza di quelli siriani, sono ribelli e basta, e vanno stroncati in ogni modo.
E l’espressione “in ogni modo” va presa alla lettera. È curioso ma, con tutta l’importanza che si dà alle organizzazioni umanitarie, nessuno sembra aver notato il rapporto di Human Rights Watch che accusa le forze aeree della coalizione a guida saudita di aver usato cluster bombs contro gli affollati quartieri alla periferia della capitale Sanaa. Anzi, per dirla con Steve Goose, esperto di armamenti della Ong, “l’uso ripetuto da parte della coalizione di cluster bomb nel mezzo di una città affollata suggerisce l’intenzione di colpire i civili, il che è un crimine di guerra” (The coalition’s repeated use of cluster bombs in the middle of a crowded city suggests an intent to harm civilians, which is a war crime).
Per dirla in breve, le cluster bomb, o “bombe a grappolo”, sono bombe che contengono altre bombe. Quando esplodono compiono una prima distruzione. Nello stesso tempo disseminano altri ordigni più piccoli che si disperdono e compiono ulteriori disastri. Questo se funzionano. Perché molto spesso gli ordigni più piccoli non scoppiano subito ma solo quando li prende in mano un bambino, li calpesta un passante, sono urtati in un modo qualunque. Per dare un’idea: in Afghanistan stanno ancora cercando di eliminare del tutto quelli seminati dagli apparecchi sovietici; nell’ultimo conflitto nel Sud del Libano circa il 50% degli ordigni interni alle cluster bomb rimase inesploso all’impatto.
Non a caso nel 2008 è stata firmata una Convenzione sulle cluster bomb che vieta l’uso, la vendita e l’accumulo di questo tipo di bombe e che è stata firmata da 108 Paesi. L’Italia, già produttirce di bombe a grappolo, ha aderito alla Convenzione e l’ha ratificata nel 2011. Purtroppo tra i Paesi che non l’hanno accettata ci sono quasi tutti quelli impegnati nello Yemen: Arabia Saudita, Usa, Iran, Corea del Nord, Israele, Russia. Resta però il fatto che gli Houthi non hanno aviazione, quindi non sganciano cluster bomb.
Le cluster bomb impiegate nelle Yemen fanno parte di uno stock venduto dagli Usa all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti. E gli Usa hanno comunque una legge che permette la vendita ed esportazione degli ordigni ma vieta ai compratori di cluster bomb non solo di usarle contro la popolazione civile ma anche nelle zone dov’è nota la presenza di civili (“… will only be used against clearly defined military targets and will not be used where civilians are known to be present or in areas normally inhabited by civilians“). Ma poiché gli Usa forniscono alla coalizione a guida saudita assistenza militare e intelligence, trovano un po’ complesso ammettere che i loro assistiti facciano un po’ di crimini di guerra. E che loro, i venditori americani di cluster bomb, stiano quindi violando le leggi del loro stesso Paese.
Non ci aspettiamo, quindi, che gli Usa seguano l’esempio della Svezia, che ha troncato la collaborazione militare con i sauditi. Men che meno che seguano l’esempio del Parlamento europeo che ha votato a larga maggioranza una risoluzione per chiedere a Federica Mogherini di “lanciare un’iniziativa volta a imporre un embargo sulle armi dell’Ue contro l’Arabia Saudita”. È successo il 25 febbraio e anche di questo si è parlato poco. Forse perché anche noi abbiamo i nostri lati oscuri. Come le sei spedizioni di bombe (o sistemi d’arma) prodotte da un’azienda tedesca con due stabilimenti in Italia e partiti dalla Sardegna verso l’Arabia Saudita. Forse, sfruttando qualche tecnicismo, quelle forniture non violano la lettera dell’articolo 1 della legge 185/90 che vieta l’esportazione di armamenti verso Paesi in stato di conflitto armato e che violano i diritti umani. Ma lo spirito lo violano eccome.