LA RUSSIA, CON O SENZA BORIS NEMTSOV

Boris Nemtsov

L’albero che cade fa più rumore ma la foresta che cresce fa più legno. Per lo stesso principio sarà bene non illudersi troppo sugli effetti delle manifestazioni che hanno portato decine di migliaia di persone in piazza, a Mosca e non solo, per protestare contro l’ennesima morte violenta e piangere l’assassinio di Boris Nemtsov, il rampollo della nomenclatura sovietica diventato prima politico liberale e poi avversario irriducibile del Cremlino di Vladimir Putin. La quercia è caduta con fragore ma i suoi effetti concreti sulla politica russa saranno limitati, perché in questi anni è cresciuta una foresta piena di linfa nazionalistica fin troppo folta e robusta.

L’incapacità di distinguere le pulsioni e i sentimenti profondi dei russi (Elena Bonner, moglie di Andrej Sacharov, diceva spesso: “La Russia è nelle province”), unita alla schermaglia politica di quella che chiamiamo “nuova guerra fredda”, produce una serie infinita di fraintendimenti e incomprensioni. Da questo punto di vista  è facile prevedere che la tragica scomparsa di Boris Nemtsov diventerà col tempo una replica quasi perfetta del “caso Politkovskaja”.

Boris Nemtsov, il “cittadino medio”

La giornalista, diventata famosa per le sue inchieste sulla guerra in Cecenia e sulla corruzione in seno all’esercito russo, fu uccisa a colpi di pistola a Mosca il 7 ottobre del 2006. Come per Boris Nemtsov si mobilitarono le élite intellettuali e culturali e la borghesia illuminata delle grandi città. Ma una ricerca del Levada Center, in Russia il più autorevole istituto di studio della pubblica opinione, mostrò che dopo due gradi di processo ai presunti assassini il nome Politkovskaja diceva qualcosa solo a una piccola minoranza di russi. Mentre in Occidente si divoravano i suoi libri, la si nominava eroina di una indeterminata ma a noi cara “nuova Russia” e ci si ostinava a credere che le sue inchieste avessero a tal punto scosso il Cremlino da indurre Vladimir Putin a ordinarne l’omicidio.

Non è politicamente corretto dirlo, e nemmeno simpatico, ma è purtroppo vero ciò che il portavoce di Putin, Dmitriy Peskov, ha con crudeltà sottolineato poche ore dopo l’ultimo omicidio: “Boris Nemtsov era poco più che un cittadino medio”. E per dirla tutta, è assai probabile che la maggior parte dei russi considerasse le tesi di Boris Nemtsov sull’Ucraina (abbandono di qualunque sostegno ai ribelli indipendentisti filorussi) e sulla Crimea (restituzione immediata a Kiev) un tradimento della patria.

Ciò vuol dire che Putin non ha responsabilità in questa morte, e che non ne avesse nemmeno nel caso di Anna Politkovskaja? No. Putin non sarà stato il mandante dei due omicidi eccellenti ma è di certo stato l’artefice primo di una società intimamente violenta, in cui la garanzia della legge (ben lo sa anche chi opera nel business) è scarsa per non dire aleatoria e il culto machista dell’autorità e del capo sempre ben alimentato. Una società in cui le pistole hanno spento le voci di giornalisti e politici, ma anche di avvocati, sociologi, attivisti di organizzazioni non governative. Una violenza cui, oggi, il nazionalismo sembra fornire ulteriori scuse e coperture.  E di questo il Cremlino può accusare solo se stesso.

Pubblicato su Avvenire del 3 marzo 2015

Sullo stesso tema: “Nemtsov come la Politkovskaja”

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Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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