La giornata di oggi, con le Borse in caduta dappertutto (a Mosca, poi, un meno 10% da sprofondo) e 20 miliardi bruciati sui mercati dimostra che il calo del petrolio, sceso alla quota incredibilmente bassa di 56 dollari a barile (in giugno era ancora a 112), non è quella pacchia assoluta di cui hanno scritto fin troppi. E non lo è per ragioni economiche e politiche insieme.
Partiamo da quelle economiche. La sovrabbondanza di petrolio sui mercati è dovuta a due fattori. Il primo è l’ascesa irresistibile degli Usa come Paese produttore grazie allo shale oil (il petrolio di scisto) e al fracking, la tecnologia che permette di estrarlo dalle rocce e dalle sabbie. Ormai autosufficienti dal punto di vista energetico, gli Usa producono più gas della Russia e tra poco produrranno più petrolio dell’Arabia Saudita. Ma c’è anche un’altra ragione: i dodici Paesi dell’Opec (che controllano il 78% delle riserve petroliferi mondiali) e la Russia non vogliono ridurre la produzione e sono disposti, come di recente annunciato, ad accettare un calo del petrolio fino a 40 dollari a barile. L’obiettivo è di rendere non più redditizia la pratica americana del fracking: il prodotto così prodotto negli Usa, infatti, comincia a rendere a partire da un prezzo non inferiore ai 60-65 dollari a barile.
Calo del petrolio e nuove alleanze
Gli Usa sono autosufficienti per l’energia, e potrebbero anche dire: bene così. Potrebbero dirlo con tranquillità se l’economia odierna fosse quella dell’Ottocento. Ma oggi il quadro è diverso. Per fare un esempio: la Cina detiene il 21% del debito pubblico americano, ed essendo una grande divoratrice di energia si avvantaggia del calo del petrolio tanto quanto gli Usa. Anzi: essendo il motore del consumo internazionale, può quasi dettare i prezzi dell’oro nero. Le esportazioni Usa, inoltre, valgono 1,6 trilioni di dollari (1,6 milioni di miliardi di dollari, dato 2013) e sono vendute per il 7,5% proprio in Cina. Questo solo per dire che con un’economia mondiale strettamente interconnessa, l’impoverimento da calo del petrolio di tanti partner commerciali potrebbe prima o poi diventare un freno, se non un rischio, per gli stessi Usa. Non a caso anche Wall Street ha mostrato segni di forte nervosismo, nelle ultime settimane. Senza contare che destabilizzare, dal punto di vista economico, mezzo mondo, non sarebbe un affare per nessuno.
E poi c’è l’aspetto politico. La decisione dell’Opec di resistere al calo del petrolio e alla guerra dei prezzi accomuna Paesi diversissimi. Paesi che, prima, quasi non si parlavano, quando non si facevano la guerra. Iran e Arabia Saudita, per esempio. La Libia che combatte i Fratelli Musulmani e il Qatar che invece li appoggia, per farne un altro. O la Russia di Putin e la Turchia di Erdogan, che si sono affrontate per secoli e tre settimane fa si sono giurate fedeltà sul gas e sul nucleare, proprio in risposta al calo del petrolio.
In altre parole, calo del petrolio e pressione economica stanno cambiando alleanze e schieramenti che sembravano immutabili. Le alleanze e gli schieramenti che hanno segnato il “secolo americano” cominciato alla fine della prima guerra mondiale.
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