Sono passati esattamente dieci giorni da quando Eyal Yifrach, Gil-ad Shàer e Naftali Frankel, i tre studenti di una scuola rabbinica, sono scomparsi mentre facevano l’autostop nei pressi di Hebron, dopo essere usciti da uno degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Dei tre non ci sono notizie, il che non è ovviamente una buona cosa. E dopo la prima reazione rabbiosa del premier Netanyahu e delle autorità di Israele (accuse verso tutti, Abu Mazen considerato responsabile, centinaia di palestinesi arrestati), tese anche a dimostrare impegno ed efficienza, i pronunciamenti politici sono diventati assai più prudenti.
Il principale accusato resta Hamas, il movimento politico-militare (terroristico, secondo il giudizio di Israele, Usa e di gran parte dei Paesi europei) palestinese che dal 2007 controlla la Striscia di Gaza dopo averne cacciato con le armi gli uomini di Al Fatah e di Abu Mazen. E se non Hamas, uno dei tanti gruppuscoli armati che gli ruotano intorno. Nessuno rivendica il rapimento perché tutti sanno che, una volta conclusa la vicenda, Israele non farà mancare la propria rappresaglia. Netanyahu, poi, non è il tipo da dimenticare un oltraggio come questo.
Ma è chiaro che anche in Israele è in corso un riesame dei fatti e, soprattutto, delle conclusioni da trarre. Sembra prevalere, ormai, la considerazione che il primo obiettivo del rapimento sia stato proprio l’affondamento di quel governo di unità nazionale Al Fatah – Hamas che i palestinesi (una parte, almeno) consideravano un modo per “pesare” di più nelle trattative e che Israele, invece, aveva vissuto come un affronto e una minaccia.
Netanyahu e Abu Mazen sotto pressione
L’uomo sotto pressione, oggi, è Abu Mazen, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese che regge la Cisgiordania e che ancora una volta avrebbe dato credito a una volontà politica unitaria che Hamas, come al solito, ha fatto presto a ritirare. Ma sotto pressione è anche Netanyahu, che deve riportare a casa i tre ragazzi e nella gestione del caso ha commesso errori clamorosi, primo fra tutti quello di accusare proprio Abu Mazen, l’ultimo che avrebbe potuto desiderare un gesto così clamoroso e, dal suo punto di vista, sconsiderato.
Ora le ricerche proseguono, circondate da quello che, da un punto di vista politico, equivale al silenzio. Di fatto, i palestinesi della Cisgiordania e l’esercito di Israele collaborano. Lo ha spiegato bene, anche se in linguaggio diplomatico, il portavoce del Dipartimento di Stato Usa. Incontrando la stampa, Jen Psaki ha detto: “Sappiamo che il presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen, n.d.r) ha telefonato al primo ministro Netanyahu per condannare l’accaduto e per garantire la propria collaborazione affinché i tre ragazzi israeliani siano trovati a riportati a casa. Sull’accaduto d’altra parte è in corso un’inchiesta”.
Psaki ha poi aggiunto: “Abbiamo parlato con le parti (Israele e palestinesi, n.d.r) sull’importanza di una stretta cooperazione nell’ambito della sicurezza e vediamo che ciò sta avvenendo”. Mentre tutti speriamo che i ragazzi siano salvati, possiamo anche sperare che la lezione sulla cooperazione, così amaramente appresa, serva per il futuro. Sia ai palestinesi sia agli israeliani.
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