Con un sospiro di sollievo abbiamo accolto la liberazione dei giornalisti (Susan Dabbous, Amedeo Ricucci, Elio Colavolpe, Andrea Vignali) che per giorni sono stati sequestrati in Siriada un gruppo della galassia armata che combatte Assad. Ma con un sospiro di scoramento registriamo che, a due anni dai primi moti nella città di Deraa, nemmeno un episodio che ha coinvolto il nostro Paese riesce a innescare un’analisi più realistica di quanto avviene laggiù.
Da molto tempo non si tratta più di una rivolta contro Assad ma di una vera guerra civile. Con quanto ne consegue: 120-130 mila morti (e nel 2013 le vittime sono già più numerose che in tutto il 2012), 2,5 milioni di profughi interni, 1,2 milioni di siriani fuggiti nei Paesi confinanti. Il tutto su una popolazione di 20 milioni di persone. L’economia è disastrata, il tessuto sociale lacerato, il Governo dedito solo a gestire la repressione.
Di fronte a questo, e all’unanime condanna per Assad, è pericoloso descrivere quanto accade come una drammatica lotta per la democrazia. In Siria agiscono forze di stampo più “dittatoriale” dell’attuale, orrendo regime, forze che dettano il passo del conflitto. Tra i ribelli, gruppi ispirati ad Al Qaeda (come quel Jabhat al Nusra che ha rapito i giornalisti e che da tempo gli Usa hanno messo nella lista nera dei gruppi terroristici) o milizie finanziate dal regime wahabita dell’Arabia Saudita. A fianco del regime, i basij dell’Iran o i combattenti dell’Hezbollah libanese.
Si confrontano, in una rinnovata età della pietra, con stragi di civili e auto-bomba ma saranno loro a giocarsi il futuro del Paese. È il prezzo che paghiamo per non aver voluto intervenire prima e con più decisione. Ma come l’Irak insegna, giocare agli apprendisti stregoni e liberare forze maligne, che ci illudiamo di controllare, porta a poco di buono. In questo caso, in primo luogo per i siriani ma poi anche per i loro vicini.
Pubblicato su Famiglia Cristiana n.17/2013