Si parla di militari e l’accostamento con le medaglie viene naturale. Ma quella che riguarda Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, e il loro sospirato rientro in Italia per Natale, ha più che mai due facce. Una è quella che ospita la decisione dell’Alta Corte del Kerala e un gesto che, come ha detto il ministro degli Esteri Giulio Terzi, fuor di dubbio rappresenta “una prova di sensibilità indiana per i valori più sentiti del popolo italiano”.
L’altra, invece, è quella che mette in risalto una “licenza” concessa a due soldati che, dopo l’incidente in acque internazionali in cui morirono due pescatori, si sono pur sempre presentati spontaneamente alle autorità dell’India, e sono rimasti in detenzione per dieci mesi; licenza che lo Stato italiano ha comunque pagato a caro prezzo, con una lunga mobilitazione e 826 mila euro.
La vicenda non è finita: entro il 10 gennaio i due dovranno tornare in India, sperando che la Corte Suprema indiana infine li affidi alla giustizia italiana. E in ogni caso, la dinamica dell’accaduto non è affatto chiarita, a dispetto delle lunghe indagini condotte da una squadra speciale della polizia del Kerala. Anche il sollievo, quello di Girone e Latorre e il nostro, è quindi relativo. Nell’attesa del meglio e del giusto, però, possiamo mettere in prospettiva un caso in cui troppi, e con troppa fretta, hanno a tutti i costi voluto scoprire un fallimento della nostra diplomazia.
Due le considerazioni necessarie. Il dramma che ha coinvolto i marò italiani e i pescatori indiani non avrebbe mai avuto luogo se la petroliera italiana, come moltissime navi mercantili di ogni nazione e bandiera, non fosse stata costretta a imbarcare uomini armati per difendere il carico e l’equipaggio dagli assalti dei pirati. E sulla pirateria, che prospera al largo degli Stati falliti (come la Somalia) o degli Stati che non riescono a proteggere il mare (e qui qualcosa si potrebbe dire anche dell’India), ha fallito non certo l’Italia ma la comunità internazionale tutta. Persino la Convenzione internazionale sul Diritto del mare non chiarisce fino in fondo se sia un obbligo giudicare i responsabili di atti di pirateria né quale Stato sia obbligato a farlo.
Secondo: nel braccio di ferro tra Italia e India è plasticamente rappresentato lo spostamento di equilibrio politico cui il pianeta intero è stato sottoposto negli due decenni, cioè nel periodo in cui Paesi come Brasile, Cina e India sono passati con un balzo dal sottosviluppo al massimo sviluppo. L’India per le cui carestie si organizzavano regolari collette quand’eravamo ragazzi, vanta oggi il quinto Prodotto interno lordo del mondo per valore assoluto (4.421 trilioni di dollari nel 2011) e un ruolo strategico (basta pensare ai suoi vicini Cina, Pakistan, Afghanistan…) di enorme significato.
Sono loro, oggi, i giganti. Sono loro i bulli del quartiere. Non certo l’Italia. Sgradevole verità ma pur sempre verità. Dimenticarlo serve tutt’al più a consolarci. Ricordarlo serve invece a valutare meglio successi e insuccessi e a riflettere su quanto ci costi, in ogni senso, l’assenza anche solo di un abbozzo di politica estera comune all’Europa. Il 2012 ci ha dato la perfetta rappresentazione di un continente che, sia pure tra mille difficoltà e polemiche, riesce comunque a compattarsi intorno alla moneta unica ma è rapido a dividersi su qualunque altra questione, dalla politica fiscale alla strategia di difesa. Mentre solo l’unione, nel quartiere chiamato mondo dove i bulli sono più numerosi e più aggressivi di prima, potrebbe fare la forza. E la forza, alla lunga, tramutarsi in potenza anche economica.
Pubblicato sull’Eco di Bergamo del 21 dicembre 2012
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