PALESTINA, ALL’ONU SI PUO’ DIRE

L'esultanza dei palestinesi a Ramallah.

E’ senz’altro possibile sostenere, come fa il primo ministro israeliano Netanyahu, che nulla cambierà sul terreno, nella vita quotidiana dei popoli e delle persone. E’ altrettanto plausibile credere, e io sono tra quelli che lo credono, che per la pace vera, duratura, occorrerà ben altro e che ben altri fattori (le bande terroristiche che fiancheggiano Hamas, per esempio; i finanziamenti che dal mondo arabo vanno a nutrire ogni sorta di estremismo, per farne un altro) dovranno essere disinnescati.

L'esultanza dei palestinesi a Ramallah.

Quello che in nessun modo si può dire, però, è che la posizione di “Stato osservatore non membro” presso l’Onu, ottenuto ieri per la Palestina dall’Autorità nazionale palestinese con 138  sì, 9 no e 41 astenuti (e con l’approvazione della Santa Sede, che all’Onu ha lo status di osservatore permanente: “Accogliamo con favore la decisione dell’Assemblea Generale”) sia un ostacolo o addirittura una minaccia alla pace. Ripeterlo è da un lato quasi ridicolo, dall’altro quasi scandaloso.

Il ridicolo sta, con evidenza, nei numeri. A opporsi a questo pur piccolissimo passo verso il riconoscimento della Palestina sono rimasti 9 Paesi: oltre ovviamente a Israele, gli Usa e poi Panama, Palau, Canada, Isole Marshall, Nauru, Repubblica Ceca e Micronesia. A dire invece sì, oltre ai prevedibili Russia e Cina, anche Italia, Francia e Spagna, Grecia e Irlanda. Astenuta la Germania come pure la Gran Bretagna, in politica estera di solito fedele alle scelte della Casa Bianca.
Insomma: piaccia o no, la stragrande maggioranza del mondo ha mandato al binomio Israele-Stati Uniti, ormai autosegregatisi in un ridotto poco comprensibile, un messaggio preciso. Che nei grandi numeri non è di ostilità allo Stato ebraico (anche se è chiaro che in quei 138 sì ci sono anche quelli di Paesi poco democratici e, per usare un eufemismo, poco inclini alla tolleranza reciproca), ma di stanchezza nei confronti di un problema che si trascina da decenni e che, lasciato alla iniziativa delle parti, non riesce a fare passi avanti. Il mondo è cambiato, le sensibilità sono cambiate, il Medio Oriente sta cambiando. Provino a cambiare anche israeliani e palestinesi. Con una aggiunta: il voto della Repubblica di Nauru, 9.378 abitanti su un’isola del Pacifico, ha la stessa dignità di tutti gli altri. Ma non può essere paragonato a quello di Paesi come l’Italia o la Francia, che in questi decenni hanno manifestato a Israele un chiaro e innegabile sostegno.
Tramutare questo voto dell’Assemblea Generale in una minaccia alle  prospettive di pace è invece scandaloso nella misura in cui paragona un’iniziativa politica come la richiesta palestinese accolta dall’Assemblea (discutibile fin che si vuole, ma indubbiamente legittima e comunque pacifica) alle minacce vere: dai missili di Hamas agli attentati kamikaze, alla politica degli insediamenti su terre che, in teoria, dovrebbero essere oggetto di quelle trattative che Netanyahu invoca, e dove già oggi vivono 600 mila israeliani. Non si può mettere tutto allo stesso livello. Nè cercare di convincere il mondo che tra Abu Mazen, e con lui gli abitanti di una Cisgiordania che più povera e debole non potrebbe essere, e gli armigeri di Hamas non corre alcuna differenza. Non si può anche perché, come i numeri del voto dimostrano, non c’è più nessuno che ci creda.
Detto questo, al netto del comprensibile esagerato entusiasmo dei palestinesi, occorre ribadire (e questo è un compito specifico dell’Europa) che anche per i palestinesi e per Abu Mazen nessun pasto è gratis. L’Autorità nazionale palestinese ha un deficit di trasparenza, efficienza e onestà che va assolutamente colmato. Così come devono sparire dai radar pasticci e ambiguità come quelli recenti alla ricerca di un accordo, peraltro regolarmente affondato, con Hamas. Non c’è strada fuori dal ripudio della violenza contro Israele e il suo popolo. E dunque non vi può essere intesa con chi, anche palestinese, non si rende conto di questa realtà.
Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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