Vista da lontano, e sulla base dei nostri normali criteri di giudizio, l’ennesima vittoria elettorale di Hugo Chavez, la quarta dal 1998, ha dell’incomprensibile. Vale a poco notare che dai tempi del massimo fulgore (il 63% dei voti nelle elezioni del 2006) l’ex ufficiale diventato Presidente ha perso quasi nove punti di consenso, e che questa volta il distacco dal candidato rivale, Henrique Capriles, governatore dello Stato di Miranda, ha superato di poco il milione di voti.
Resta il fatto che i venezuelani sono accorsi alle urne (ha votato oltre l’81% degli aventi diritto) e il Venezuela si è consegnato di nuovo a Chavez che, salute permettendo, potrà governare, o forse regnare, per altri sei anni. Il Venezuela della violenza diffusa (quasi 50 omicidi ogni 1000 mila abitanti, record dell’America Latina), dell’iperinflazione ( 28% nel 2011), delle infrastrutture pericolanti (i black out energetici sono ricorrenti), della libertà di stampa limitata, di uno Stato occhiuto e onnipresente.
Eppure c’è una logica anche in questa apparente follia. In parte è l’eredità del passato prossimo: Chavez ha saputo sfruttare al meglio l’ondata di ribellione al primato invasivo degli Usa sul continente che alla fine degli anni Novanta ha investito diversi Paesi dell’America Latina. Quello che altrove è stato lo spunto per una modernizzazione dello Stato e una rinascita dell’economia, in Venezuela è diventato una sorta di bolivarismo in salsa socialista. Il che ha isolato Chavez ma, nello stesso tempo, ne ha fatto il residuo campione di un terzomondismo superato e quasi ridicolo nelle manifestazioni (a partire dal sostegno alla Libia di Gheddafi e all’Iran di Ahmadinejad) ma ancora capace di affascinare le masse, soprattutto in un Paese ancora di molti poveri come il Venezuela. Non a caso ieri il Presidente ha festeggiato i risultati presentandosi al balcone con la spada di Simon Bolivar in pugno.
Poi non va sottovalutato il pittoresco e insieme sottile talento di Chavez per la propaganda. In questa elezione il caudillo ha giocato con astuzia anche la carta della malattia: dopo aver disertato le prime battute della campagna elettorale, si è ripresentato agli elettori come una sorta di Lazzaro redivivo, un leader insuperabile e indistruttibile. Poco importa se la Costituzione impone che, in caso di incapacità del Presidente, si debba tornare a votare e se il vice, il sociologo e ministro dell’Agricoltura Elias Jaua Milano, è una figura assai pallida. Al momento giusto, il Parlamento “amico” voterà le opportune modifiche.
Ma il fattore decisivo, per Chavez come per altri presidenti autoritari, si chiama petrolio. Con un posto fisso tra i primi dieci produttori ed esportatori di petrolio al mondo, il Venezuela vive dell’oro nero, che da solo vale il 95% dei guadagni delle esportazioni, il 40% degli introiti dello Stato e circa il 12% del Prodotto interno lordo. Dopo la stasi del 2009-2010, la pur modesta ripresa dei mercati mondiali del 2011 ha consentito a Chavez di incrementare i guadagni e quindi di pompare” la spesa pubblica aumentando i salari e le ferie, offrendo qualche sgravio fiscale e rendendo più facile il credito al consumo, oltre a migliorare l’assistenza sanitaria.
Più che abbastanza, insieme con il controllo di tutti gli apparati statali, esercito e polizia compresi, per proporsi come il paladino della stabilità e del benessere del popolo contro il presunto “avventurismo” di Capriles. Ora Chavez, salute permettendo, ha altri sei anni per giocare il suo gioco preferito: quello del potere.
Pubblicato su Avvenire del 9 ottobre 2012