Che cosa succede nell’Iran sottoposto alle sanzioni adottate da Stati Uniti ed Europa? Alla vigilia della trasferta all’Onu, in cui il presidente Ahmadinejad ha rinnovato la sua sfida, l’economia iraniana si è mostrata ben avviata sulla strada del collasso.
L’esportazione del petrolio, che da sola costituisce l’80% di tutte le esportazioni e il 50% delle entrate dello Stato, è precipitata: in un anno è passata da 2,3 milioni di barili al giorno a poco più di 800 mila, il che equivale a una perdita secca di 50 miliardi di dollari l’anno, il 10% del Prodotto interno lordo. Tutti i vecchi e affezionati clienti si sono in qualche modo ritirati: 40% di petrolio in meno acquistato dall’India, 80% dalla Turchia, persino la Cina ha tagliato del 30%. Addio quindi al rango di terzo esportatore mondiale di petrolio occupato dall’Iran solo un anno e qualche mese fa.
I disoccupati? In crescita esponenziale. Le stime ufficiali dicono 12,5% ma un dato più realistico potrebbe stare tra il 20 e il 25%. Nell’ultimo anno, quello delle sanzioni, sarebbe stato bruciato oltre mezzo milione di posti. E Abdolreza Sheikholeslami, il ministro del Lavoro, si è visto recapitare una lettera-appello da parte di 20 mila lavoratori che vengono pagati con mesi di ritardo e ricevono salari di circa 100 euro al mese. Il commercio langue, l’industria rallenta paurosamente: il meno 35% del settore dell’auto (e indotto) parla per tutti.
A picco anche il Rial, la valuta iraniana. Senza il petrolio a procurare robuste iniezioni di valuta pregiata, il Rial si è svalutato del 145% rispetto al dollaro. Se a fine 2011 ci volevano 13.000 Rial per avere un dollaro, oggi ne servono 32.500. Un disastro. E l’inflazione galoppa verso quota 30%.
Per gli iraniani, è ovvio, le cose possono solo peggiorare. Il regime non è mai riuscito a dare efficienza alla macchina dell’economia e gli ayatollah si sono limitati a redistribuire un po’ dell’abbondanza generata dal petrolio nei periodi buoni, senza far nulla di sensato nei periodi di magra. Figurarsi, dunque, se possono avere il colpo d’ala proprio adesso, sotto la pressione crescente dell’embargo. Tra l’altro, le faide interne al regime e i privilegi concessi a questo o quell’apparato per comprarne la fedeltà lo impedirebbero.
Detto questo, che cosa possiamo aspettarci? Che gli iraniani facciano la rivoluzione? Improbabile. Certo non nel breve o medio periodo. Che gli iraniani premano sul regime per fargli cambiare condotta? Impossibile. Certo non in un Paese retto da un’inflessibile dittatura. Che Ahmadinejad e gli altri rinuncino al programma nucleare? Inimmaginabile. Intanto perché il nucleare era ed è considerato una priorità nazionale anche dalle “opposizioni” che scesero in piazza nel 2009. Poi perché la via del nucleare non è poi così costosa. Infine perché, anche a causa dell’embargo, il regime può spiegare ai suoi che il nucleare è indispensabile per difendersi dall’aggressione economica dell’imperialismo americano ecc. ecc.
C’è una qualche probabilità, invece, che succeda l’inverso: quando la popolazione sarà allo stremo e davvero esasperata, l’avventuriero di turno, ayatollah o laico, potrebbe decidere di colpire uno dei Paesi vicini per “vendicare” le sofferenze del proprio popolo. Una gran balla, ovvio. Ma quante volte l’abbiamo visto succedere? Che cosa succederà, come cantava Lucio Battisti, “lo scopriremo solo vivendo”. E con noi, e solo allora, lo scopriranno anche i vari Obama, Romney e compagnia bella.