La guerra del Governo americano alle banche (inglesi, tedesche, forse anche italiane) che, facendo affari con l’Iran, hanno aiutato il regime degli ayatollah ad attutire le conseguenze dell’embargo internazionale, ha ultimamente toccato ua sponda molto, molto delicata: l’Iraq.
A meno di un anno dal ritiro delle truppe Usa dal Paese, il presidente Obama ha annunciato che che la Elaf Islamic Bank di Baghdad era esclusa da qualunque interazione con il sistema bancario americano. L’accusa: aver lavorato con le banche iraniane, consentendo loro di approvigionarsi di dollari.
Il Governo Usa ha agito senza fare troppa pubblicità, ovviamente. Il sospetto, forte, è che il regime di Nur al Maliki, il leader iracheno sciita che l’America appoggia senza riserve, sia coinvolto nei traffici, e questa non è cosa da gridare sui tetti.
Resta il fatto che l’interscambio commerciale tra Iraq e Iran non ha fatto che crescere negli ultimi anni, fino a raggiungere il valore di 11 miliardi annui nel 2011. E che l’Iraq, grazie ai crescenti proventi nell’esportazione del petrolio, ha accumulato quasi 60 miliardi di riserve in valuta, che servono ad alimentare la sete di dollari, la vera valuta che tiene in piedi l’economia irachena.
A far sentire puzza di bruciato, nella storia della Elaf Islamic Bank, è il fatto che l’istituto finanziario, pur scomunicato dagli Usa, in patria non è stato privato della licenza a partecipare alle aste di valuta straniera tenute dalla Banca centrale. I dollari così acquisiti verrebbero girati dalle banche irachene a banche di Dubai o Amman (Giordania), e da lì immessi nel sstema finanziario internazionale. I committenti sarebbero però gli iraniani, che avrebbero così una porta segreta sempre aperta su un circuito che l’embargo (deciso per la questione dell’arricchimento dell’uranio) dovrebbe aver chiuso per sempre.
Secondo alcune indiscrezioni, gli iraniani avrebbero messo sotto controllo quattro banche irachene, le cui operazioni di facciata sono ovviamente affidate a intermediari iracheni. La questione non è di poco conto. L’Iran, che pure ha incassato oltre 120 miliardi di dollari con le sole esportazioni di petrolio nel 2011, comincia a sentire tutto il peso delle sanzioni. L’inflazione è al 25% secondo i dati ufficiali, le esportazioni di petrolio sono in calo (clienti importanti, ma fedeli alla politica Usa, come Turchia e Corea del Sud, hanno scelto altri fornitori), i pagamenti più difficili proprio per l’esclusione dai circuiti bancari “normali”.
L’Iraq sarebbe per Teheran la scappatoia ideale: è vero che gli Usa hanno molti strumenti di pressione sul Governo di Baghdad, ma è altrettanto vero che non possono premere più di tanto, per non creare una crisi politica nella finta democrazia irachena proprio mentre la Siria esplode e l’Iran può avvitarsi in una spirale economica che, come le rivolte del 2009 insegnano, può facilmente innescare la protesta di una classe media sempre più insoddisfatta e impoverita.