UNA PRIMAVERA NON ANCORA SFIORITA

Una donna egiziana mostra il dito tinto di viola, segno del voto effettuato.

Primavera araba, già finita? La domanda è tendenziosa, perché il fermento cominciato il 17 dicembre 2010 con il suicidio (a Sidi Bouzid, capitale agricola della Tunisia a 260 chilometri dalla capitale Tunisi) del fruttivendolo Muhammed Bouazizi, in poco più di un anno ha sconvolto il Mediterraneo e si è ripercosso, attraverso la Penisola arabica, fino all’Iran da dove, a ben vedere, era partito fin dal 2009, con le proteste popolari per la rielezione del presidente Mahmud Ahmadinejad. Tiranni abbattuti, equilibrii secolari insidiati, una società civile mai così attiva ed esigente. Non è poco per un mondo immobilista quasi per definizione.

Una donna egiziana mostra il dito tinto di viola, segno del voto effettuato.

Domanda tendenziosa, quindi, ma non infondata. In Iran sappiamo com’è finita: proteste stroncate nel sangue e Ahmadinejad ancora lì a giocare con i progetti di bomba atomica. In Libia minaccia di succedere proprio quanto temuto: cacciata la dittatura, fazioni e tribù si fronteggiano con i nervi sempre più tesi. Nello Yemen il tiranno Alì Abdullah Saleh ha lasciato il potere dopo 22 anni di dominio, ma solo per essere sostituito dal suo vice, Abed Mansour Hadi, vincitore di un’elezione presidenziale che aveva un unico candidato: lui stesso. Controllata e garantita dagli Usa, ma pur sempre una farsa.

Il caso più eclatante, però, è quello dell’Egitto. Hosni Mubarak, un ex generale dell’aviazione, è rimasto al potere per trent’anni tondi (1981-2011) proprio appoggiandosi alla robusta spalla delle forze armate, cui ha garantito un ruolo decisivo e privilegi a profusione, facendone il maggior centro di potere economico del Paese: secondo i calcoli di Zeinab Abul Magd, docente di Economia presso l’Oberlin College dell’Ohio (Usa), dipende dai militari circa un terzo del Pil egiziano. I ragazzi del Cairo hanno fatto la rivoluzione in piazza Tahrir ma al potere, oggi, c’è un altro generale: Mohammed Hussein Tantawi, comandante in capo dell’Esercito, ministro della Difesa e della Produzione Militare nonché presidente del Consiglio supremo delle Forze armate.

Tutte queste cariche, tranne l’ultima, erano sue già ai tempi di Mubarak. Quella di presidente del Consiglio supremo gli è servita in questi giorni per “benedire” lo scioglimento del Parlamento in cui godeva di una robusta maggioranza l’unica altra forza capace di insidiare il potere dei generali, il movimento dei Fratelli Musulmani. I quali, così, otterranno forse la presidenza della Repubblica (il loro candidato, Mohammed Morsy, è favorito a spoglio ancora in corso) ma in ogni caso non avranno il Parlamento che avevano già conquistato.

Proprio le vicende dell’Egitto, però, ci dicono quale sia la vera questione. Per mesi, durante e dopo i disordini che nel febbraio 2011 portarono alla cacciata di Mubarak, abbiamo sentito esaltare il ruolo dei giovani blogger e degli attivisti, laici e moderati, che manifestavano in piazza. Poi, quando gli egiziani sono andati a votare, la gran massa dei consensi è finita ai Fratelli Musulmani. E’ la solita confusione che si fa, a proposito del mondo arabo, tra le avanguardie rumorose e le masse silenziose.

Le prime indicano il futuro ma le seconde organizzano il presente. E in questo presente, l’Occidente non ha ancora deciso se dei Fratelli Musulmani come forza di governo ci si può fidare o no. Le ragioni del “no” sono note: il radicalismo islamico (il loro candidato in Egitto, Morsy, prima di attenuare i toni chiedeva di annullare il Trattato di pace con Israele e di inserire la shari’a, la legge islamica, nel dettato costituzionale), la contiguità spesso verificata con i gruppi del terrorismo, un istinto antagonista di cui spesso si fatica a capire le motivazioni. Ma questo “no”, ed è uno dei risultati maggiori della Primavera Araba, è molto più articolato di un tempo.

Poche settimane fa si sono svolte le elezioni politiche in Algeria, cioè nel Paese dove all’inizio degli anni Novanta proprio la vittoria dei movimenti islamici radicali in regolari elezioni aprì la porta a un golpe militare e a una guerra civile crudelissima. Anche questa volta si temeva l’avanzata dei movimenti analoghi ai Fratelli Musulmani, e invece no: ha vinto il partito già al potere. E in Tunisia? Elezioni, vittoria di Ennhadha, il partito guidato dal leader islamista Rashid Ghannouchi. Allarme generale, per poi scoprire che proprio gli islamismi hanno respinto qualunque tentativo di inserire la shari’a nella Costituzione.

Insomma, il mondo cambia. Anche in Medio Oriente. Anche se la prudenza resta una buona compagna di viaggio e la fretta una cattiva consigliera.

Pubblicato sull’Eco di Bergamo del 21 giugno 2012

 

 

 

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

Altri articoli sul tema

*

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Top