Chi ben comincia… Ma a quale opera si accinge un regime che, all’inizio del quarto capitolo di un regno che procede da 12 anni e durerà per almeno altri 6, quale primo provvedimento approva una serie di norme destinate a strangolare la libertà di manifestazione e quindi di dissenso? La legge licenziata ieri in terza lettura dalla Duma prevede sanzioni economiche micidiali per chi dovesse prender parte a cortei, proteste o riunioni pubbliche non autorizzate: 13 mila euro per i semplici partecipanti, in un Paese dove i sociologi considerano “borghese” chi ha un reddito pari a 800 euro al mese; e 39 mila euro per gli organizzatori. E poiché chi autorizza le manifestazioni è solo l’altra faccia dell’autorità che punisce i trasgressori, il gioco è fatto: autorizzazioni sempre più rare, sanzioni sempre più pesanti, dissenso sempre più silente e privato. Confinato al tavolo di cucina, come ai tempi dell’Urss.
La legge passerà ora al vaglio del Senato, il cui “sì” è più che scontato. Ma per entrare in vigore avrà bisogno della firma del Presidente, cioè di Vladimir Putin. Il quale farebbe bene a riflettere prima di impugnare la stilografica. La Duma ha approvato la legge con una maggioranza che, per le abitudini del Cremlino, è stata assai risicata: 239 “sì” contro 207 “no”. Ed è invisa a un’opinione pubblica che ancora non riesce a esprimere un’idea coerentemente alternativa a quella di chi è al potere, ma che nelle grandi città produce un sentimento di malessere e scontento che cresce di giorno in giorno.
La Russia non è più quella che Putin si era abituato a conoscere e governare. Sono bastati gli anni della crisi economica globale per cambiarla a fondo. Il patto neanche tacito tra regime e cittadini era “meno libertà in cambio di stabilità e benessere”. Se il Cremlino non riesce più a mantenere, proprio a causa della crisi, la sua metà del contratto, perché i cittadini dovrebbero impegnarsi per la loro? E infatti le piazze si sono riprese il diritto di esistere e di contestare, approfittando dell’arrivo sulla scena sociale della prima generazione davvero postsovietica, quella dei ragazzi nati dopo la fine dell’Urss.
La vera sfida per la terza reincarnazione presidenziale di Putin non sta nel ricostruire le percentuali “bulgare” di un consenso che, in quella misura, è ormai svanito, e nemmeno nel riaffermare la presa del Cremlino sul Paese, che è stata una dei risultati maggiori (anche se non migliori) della sua stagione politica. Questa presidenza si misurerà sulla capacità di Putin di produrre un’idea nuova della Russia, adatta ai tempi nuovi e alla nuova situazione internazionale. Il nazionalismo poteva essere una buona via d’uscita dalla Russia sfrangiata e delusa del decennio Eltsin, ma non lo è più oggi, quando persino gli Usa hanno smesso di sentirsi una potenza intoccabile. E la teoria di “Mosca terza Roma” nella riedizione laica di Mosca terzo incomodo tra Washington e Pechino è poco più di uno slogan.
Serve un’idea che inserisca la Russia a pieno titolo in un gioco diplomatico che non è privo di asprezze ma in cui è chiaro che, di fronte alla crisi, nessun Paese è un’isola e, anzi, tutti in qualche modo dipendono dalla sorte degli altri. E che apra il Paese (che ha lottato 18 anni per farsi ammettere all’Organizzazione internazionale del Commercio – Wto) all’economia mondiale, dotandolo di standard legislativi accettabili, di maggiori protezioni rispetto alla corruzione, di una reale accettazione dello spirito d’impresa. E perché no, di un dibattito politico più vivo e reale. Putin ha un’idea simile? Se non firmasse quella legge avremmo qualche ragione in più per sperarlo.
Pubblicato su Avvenire del 7 giugno 2012