Non è curioso? Mentre l’Istat ci informa che tra il 2008 e il 2011 è andato perso un milione di posti di lavoro (da 7 milioni e 110 mila occupati a 6 milioni e 56 mila) nella fascia d’età 15-34 anni, c’è ancora gente in giro che esalta i pregi del precariato e vuol farci credere che l’arbitrato del giudice, in caso di “licenziamento economico” (ex articolo 18), sia una disgrazia insormontabile per il mercato del lavoro e per la crescita dell’economia.
Ci dovrebbe essere un limite anche per l’indecenza, ma non c’è. E se ai dati di cui sopra aggiungiamo la considerazione che il primo stipendio di un neo-laureato in Italia è in media sui 24 mila euro lordi l’anno, mentre quello di un neo-laureato tedesco viaggia sui 43 mila e quello di un inglese o di un francese sui 29 mila, ci rendiamo conto di che anni di follia politica abbiamo attraversato e stiamo ancora attraversando.
Il periodo 2008-2011 coincide esattamente con due fenomeni: l’ultimo Governo Berlusconi e la crisi economica mondiale. Ma la domanda vera è: tutto questo precariato non doveva servire proprio per ammortizzare gli effetti della crisi? Non si diceva: meglio lavorare precari che non lavorare affatto? E anche: come si può rilanciare l’economia se la flessibilità è tutta e soltanto “in uscita” dal posto di lavoro, come i dati dimostrano? Se i giovani sono non solo pagati pochissimo (mentre tutti gli italiani sono pagati poco) ma cacciati dal lavoro appena cambia il vento? E che cavolo di sistema economico è quello che scarica sulle famiglie gran parte del costo della crisi, lamentandosi poi se i consumi calano, per esempio del 10% stimato per questa Pasqua?
Di fronte alla riforma Monti-Fornero del mercato del lavoro, polemiche a parte, molta politica ha reagito schierandosi dietro il motto: “riduciamo il costo del lavoro per le imprese”. Giusto, buona idea. Ma ridurre il costo del lavoro per le imprese vuol dire meno diritti per i lavoratori, salari più bassi, condizioni più dure, maggiore flessibilità, più precariato. C’è la crisi, si può e forse si deve fare. Ma in cambio di che cosa? Che cosa mettono sul piatto le aziende che in questi anni hanno portato gli impianti nel Terzo Mondo o nei Paesi in via di sviluppo? Che hanno ridotto il personale? Che non hanno assunto i giovani e, anzi,m li hanno espulsi dal meccanismo produttivo?
Non prendetelo per un discorso “di sinistra”, guardate la realtà. Prendiamo il caso Fiat: il buon Marchionne fa quadrare i conti non in Europa (che, fino a prova contraria, è il luogo in cui dovremo vivere anche in futuro) ma in Serbia e in Brasile, dove un buon salario è sui 500 euro, anche meno. Negli Usa la Fiat va bene, ma vendendo i modelli Chrysler, mica la 500. Quanto dovremmo ridurre “il costo del lavoro per le aziende” in Italia per favorirlo e accontentarlo?
Volete un altro esempio? I Paesi economicamente più sani d’Europa sono Germania, Finlandia, Danimarca e Svezia. Da loro, la quota di Pil (Prodotto interno lordo) investita in Ricerca&Sviluppo arriva al 3%. E da noi? ““Nell’ultimo decennio, l’economia italiana è stata orientata verso attività a bassa intensità di ricerca e il livello di R&S è aumentato moderatamente raggiungendo l’1,27% del PIL nel 2009, con contributi identici dal settore pubblico e privato”, scrive un rapporto del programma Horizon 2020 dell’Unione Europea. Peggio di noi, da questo punto di vista, fanno solo Bulgaria, Romania e Grecia.
Il che significa che l’imprenditoria italiana, dopo anni e anni in cui ha potuto impiegare milioni di lavoratori precari sottopagati e privi di garanzie, oltre a godere di provvedimenti accessori di non poca importanza come gli “scudi fiscali”, non spende per innovare, per cercare e costruire nuovi prodotti. E infatti l’Italia non produce un computer, un telefonino, un aggeggio qualunque che sia più complicato di una Panda.
Se vogliamo essere realisti, dobbiamo rovesciare la prospettiva: la vera flessibilità si fa “in entrata” nel posto di lavoro, prima che “in uscita”. Perché se non c’è la possibilità di “entrare” da qualche altra parte, difficilmente si pensa a “uscire” da dove si è. E se la flessibilità in uscita viene forzata, come si è fatto in questi anni, ci si ritrova a fare i conti con l’impoverimento delle famiglie e con la riduzione della loro capacità di risparmio. Cioè, si mina alle radici la struttura portante del welfare nazionale.