Sarà meglio abituarsi, le sorprese della Primavera araba non finiscono mai. Avete presente Rachid Ghannouchi, leader del partito islamico Ennahda, ora al governo, ma comunque dipinto da molti come un islamista assatanato e senza speranza? Bene. Nel giro di pochi giorni ha preso posizioni che, in altre circostanze e con osservatori un po’ meno di parte, gli avrebbero forse conquistato la fama di islamista moderato e illuminato.
Intanto il suo partito, Ennahda appunto, all’Assemblea Costituente (di cui controlla il 40% dei seggi) si è schierato con i partiti laici per rifiutare qualsiasi menzione della shari’a (la legge islamica) nella Costituzione quale fonte ispiratrice del diritto. Resta ferma, invece, all’articolo 1 del testo costituzionale, la definizione dell’islam come religione di Stato.
Poi Ghannouchi si è occupato dei salafiti, che da mesi intorbidano le acque della politica e della società tunisina e che hanno sfruttato il dibattito sulla shari’a per incentivare disordini e proteste. Prima li ha accusati di volere la divisione del Paese “anche con metodi pesantemente terroristici”, poi ha lasciato briglia sciolta a Rachid Ammar, capo di stato maggiore delle Forze armata tunisine, il generale che nei giorni della rivolta disobbedì al dittatore Ben Alì che gli chiedeva di sparare sulla folla. Ammar ha detto ai salafiti: “Sto per suonare la campanella di fine ricreazione”, a buon intenditor poche parole.
Per concludere, il ministro per gli Affari Religiosi Noureddine Alkhadami, anche lui del partito Ennahda, ha costituito un Comitato di 20 “saggi” che hanno il compito di censire le circa 5 mila moschee della Tunisia, allo scopo dichiarato di scoprire in quali di esse l’influenza dei salafiti sia diventata dominante. A un primo esame, pare che le moschee “sospette” siano circa 400 ma, dice il ministro, “solo 50 costituiscono un vero problema”. Le autorità, del resto, hanno già provveduto a espellere alcuni imam troppo “focosi” e inclini alle teorie salafite, in perfetta coincidenza con (e in risposta a) l’incremento dell’agitazione dei gruppi islamisti.
Lo stesso ministro, certo non solo per iniziativa personale, ha preso apertamente e ufficialmente posizione contro gli slogan antisemiti che sono stati scanditi dai salafiti tunisini durante una manifestazione di protesta, il 25 marzo, per la solita questione della shari’a. Era il terzo episodio del genere (i precedenti erano stati in gennaio, durante la visita di Ismail Haniyeh, premier a Gaza per conto di Hamas, e in febbraio, durante la visita di un uomo politico egiziano) e le autorità hanno deciso di intervenire. Li ha stimolati il coraggio della piccola comunità ebraica del Paese, 1.500 persone su 10 milioni di abitanti: il suo presidente, Roger Bismuth, ha presentato un’esposto alla polizia ed è riuscito a farsi ricevere da Mustapha Ben Jafar, presidente dell’Assemblea costituente.
Per dimostrare di avere intenzioni serie, il Governo tunisino ha prolungato lo stato di emergenza. Ma la “battaglia delle moschee”, intrapresa per sradicare il contagio salafita, deve ancora essere vinta. Il suo esito costituirà un precedente importante per tutto il Maghreb, soprattutto per Libia ed Egitto, dove il problema sta diventando altrettanto evidente.
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