MUHAMMAD ALI’, 70 ANNI SUL RING

Cassius Clay-Muhammad Alì sullo sfondo di New York.
DI GIAN PAOLO ORMEZZANO – Cassius Marcellus Clay compie 70 anni il 17 gennaio. Muhammad Alì ne compie 48 il 26 febbraio. Si tratta della stessa persona, ma è meglio non ricordarlo ad Alì, che dal 1964 ha preso il nuovo nome facendosi duramente musulmano, lui figlio di una fervente cristiana battista e di un pittore d’insegne discretamente affermato. Era già uno dei pugili più popolari, era da un giorno campione del mondo, era il grande peso massimo che sapeva, parole sue, “pungere come un’ape e svolazzare come una farfalla”.

Cassius Clay-Muhammad Alì sui tetti di New York.

Era pure un atleta nero bellissimo, alto 1,91, come peso massimo piuttosto leggero, 98 chili. Aveva sconfitto il giorno prima, appunto il 25 febbraio di quel 1964, Sonny Liston, “il terrore del ring”, in uno strano match, forse truccato a pro della mafia che aveva scommesso sul giovane Clay contro il grande favorito, un tipaccio vicino ad ambienti malavitosi. E in effetti lui, vincitore per ko al primo minuto, onestamente disse di non credere proprio di avere portato un colpo terribile, decisivo.
La sua epopea è legata soprattutto a tre incontri, ovviamente definiti tutti “del secolo”quello contro Sonny Liston, nel 1964 a Miami, con il campione in carica che – già detto – consegnò a Cassius Clay ventiduenne il titolo mondiale “sbattendo” la tempia contro un suo pugno neanche troppo violento. Quello contro Joe Frazier (morto all’alba del 2012) che fu dichiarato vincitore ai punti, grazie ad un knock down che spedì per un brevissimo tempo Alì al tappeto e condizionò i giudici, alla fine di una sfida tremenda in cui molti videro in realtà prevalere Alì (New York, 8 marzo 1971), il quale Alì distrusse poi Frazier in una terza sfida, a Manila, quattordici riprese di massacro
Quello contro George Foreman a Kinshasa, nel Congo, dove si confermò il più forte, il più grande, nella sfida detta del millennio. Dopo fu il declino, ma quella notte – 30 ottobre 1974 – lui stravinse, per abbandono del rivale all’ottava ripresa, per conto dei negri d’Africa, il continente delle sue radici a cui si era come riconsegnato, contro Foreman il negro d’America, sospettato di essere uno “zio Tom” amico dei bianchi. La gente di Kinshasa era tutta per lui, il grido in swahili era “Alì boma yè”, Alì uccidilo.

Sentivo bene quel grido mentre, a pochi giorni dal match, parlavo con Alì nella capitale della ex colonia belga, la repubblica detta Zaire (il nome locale del fiume Congo) sulla quale Mobutu regnava come un re spietato. Nella stanzetta dei massaggi, dentro lo stadio messo a nuovo per il match del secolo anzi del millennio, lui sdraiato sul lettino, Angelo Dundee, calabrese che di cognome vero faceva Merenda o giù di lì, il suo manager-confessore-guru, il giornalista italiano che stentava a capire l’inglese con il profondo “broad accent” del Sud del campione su cui operava un massaggiatore silenzioso. Avevo avuto lo straordinario privilegio di un’intervistona esclusiva grazie a Gianni Minà, collega/fratello, amico personale di Alì e di Dundee che mi aveva detto: “Nel nome di Gianni Alì ti riceve, nel nome di Dio e di Allah non chiamarlo mai Clay”.

Fuori dallo spogliatoio dello stadio strepitavano centinaia di giornalisti lì da tempo, il nuovo arrivato stava “dentro” con il campione troppo a lungo, stava sottraendo loro Alì alla brevissima quotidiana conferenza stampa di gruppo. Imbeccato da domande banali ma forse inevitabili su Roma nel suo ricordo di campione olimpico, Alì parlava e straparlava, diceva che Roma ai suoi albori aveva avuto un re negro. Quale? Annibal o Asdrubal, non so bene.

Annibale era cartaginese, arabo, e non è mai stato re di Roma. Gli feci l’elenco dei primi monarchi, anche Asdrubal non c’era. Mi intestardii e lui si infuriò, un paio di volte fece intendere che voleva alzarsi dal lettino e venirmi vicino per convincermi di quello che diceva. Dietro di lui Angelo mi faceva cenno di lasciar perdere. Lasciai perdere, e forse persi l’occasione di essere messso ko da Muhamadd Alì. O da Cassius Clay, a piacere.

Rifiutato da sempre a parole il suo status di atleta da facile consumo da parte dei bianchi padroni, Cassius Clay si era fatto musulmano seguendo la predicazione di Malcom X, e nel 1967 si era negato come soldato statunitense ri-chiamato ad andare in Vietnam (una prima volta era stato scartato per scarsa istruzione). Disse: “Conosco i vietcong soltanto per quello che ci ha fatto vedere la televisione, comunque nessuno di loro mi ha mai chiamato negro, come invece accade nel mio Paese”.

Gian Paolo Ormezzano.

Il negro aveva gettato nel fiume della sua città, Louisville nel Kentucky razzista, la medaglia d’oro vinta ai Giochi olimpici di Roma 1960 fra i mediomassimi, per protesta contro il mondo bianco che in un ristorante gli aveva negato il posto a tavola per il colore della sua pelle. Rischiò il carcere, fu sospeso dal mestiere di pugile per indegnità, venne riammesso al ring nel 1971, quando sul Vietnam molti statunitensi la pensavano come lui. E riuscì a riprendersi il titolo.

Cassius Clay ha disputato nella carriera professionistica, dal 1961 al 1981, 61 incontri, vincendone 56, 37 dei quali per ko. Se una sua vittoria (Liston, la mafia…) è dubbia, le sue cinque sconfitte sono dovute a casualità di pugni “riusciti” o ad anagrafe all’occaso. Il primo che lo ha decisamente, chiaramente sconfitto si chiama Joe Frazier, e infatti la rivalità fra i due, affrontatisi tre volte (2 a 1 per il Nostro) è leggenda. Cassius Clay esordì alla boxe “pro” il 29 ottobre 1960 nella sua Louisville, battendo ai punti in sei riprese un certo Tonney Hunsacker. L’ultimo suo match il’11 dicembre 1981, contro Trevor Berbick che vinse ai punti in dieci riprese. Ernie Shravers è stato, con Joe Frazier, l’altro che lo ha messo decisamente a terra.

Dal 1981 dello stop definitivo Clay-Alì patisce i dolori, i problemi e le umiliazioni del morbo di Parkinson, che lo ha mostrato tremolante e patetico, quando, ai Giochi di Atlanta 1996, toccò a lui l’ultima fiaccola, quella con cui accendere il tripode nella cerimonia inaugurale (e fu allora che gli venne dato il fac-simile della medaglia di Roma buttata in un fiume). Ha avuto quattro mogli, ha collezionato sette figli. Una sua figlia, Laila, ha fatto pugilato, è stata la migliore al mondo, ha vinto 25 incontri su 25. Adesso lui sta molto male, ha anche tanti vuoti di memoria, recita le poesie che scriveva quando era un re. È riuscito a scampare al destino di povertà che sembra attendere quasi tutti i pugili milionari, ha i soldi anche per una sua fondazione per la lotta al Parkinson.

di Gian Paolo Ormezzano

Leggendario giornalista sportivo (e non), Gian Paolo Ormezzano ha lavorato a Tuttosport (di cui è poi diventato direttore) e alla Stampa come inviato speciale. Collabora da tempo immemore con Famiglia Cristiana. Ha scritto libri. ha raccontato 23 edizioni dei Giochi olimpici (versione estiva e invernale), 28 giri d’Italia, 12 Tour de France, innumerevoli campionati mondiali ed europei di calcio, atletica, basket, nuoto. Tifa, inevitabilmente, per il Toro.

 


Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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