Undici morti, novanta feriti, settanta persone arrestate. Questo il bilancio dell’attacco delle forze speciali del Kazakhstan contro la città di Zhanaozen, 90 mila abitanti, nella parte desertica a Ovest del Paese, ricca di giacimenti di gas e petrolio. L’atto più recente e violento di una protesta dei lavoratori petroliferi che dura da mesi e che non ha carattere politico ma sindacale e salariale: in poche parole, da mesi gli operai occupano la piazza della città per avere salari più alti e migliori condizioni di lavoro.
La città ora è in stato d’assedio. Il Governo dice che gli scioperanti hanno assaltato gli edifici pubblici, saccheggiato negozi e banche e attaccato la polizia. I lavoratori, al contrario, sostengono che la polizia ha sparato su di loro a sangue freddo. In ogni caso proteste e manifestazioni sono state bandite, i telefoni non funzionano e i collegamenti internet, per non sbagliare, sono tagliati in tutta la regione.
Sembra una di quelle situazioni che ormai punteggiano la vita sociale dei Paesi usciti dal socialismo reale e prepotentemente entrati nel circuito capitalista globale. La ricchezza diventa apparente, le distorsioni anche, il benessere pare possibile e la gente non è più disposta a vivere di un piatto di riso mentre circola il caviale. Come in Cina, quando i contadini di un villaggio del Guangdong si oppongono alle speculazioni di un immobiliarista connesso con la mafia e con le autorità locali, e interviene l’esercito.
Ma nel caso del Kazakhstan c’è qualcosa in più. I lavoratori di Ozenmunaigas (l’azienda dell’energia) hanno cominciato a scioperare nel 2008 e, da allora, hanno ottenuto almeno cinque aumenti salariali. Oggi guadagnano tra i mille e i 1.500 dollari al mese. Il lavoro è durissimo ma la paga, per gli standard di quelle nazioni, è di tutto rispetto. I sociologi, in Russia, considerano le persone con un reddito mensile di 800-1.000 al mese dei solidi borghesi. E nello stesso Kazakhstan (meno di 16 milioni di abitanti) il Prodotto interno lordo annuo pro-capite è di 12.700 dollari.
I lavoratori di Ozenmunaigas sono l’esatta replica capitalistica degli udarniki di epoca sovietica: gli operai specializzati che venivano spediti nelle più sperdute miniere della Siberia in cambio di salari maggiori e di tempi abbreviati nell’attesa di un appartamento o di un’automobile. Ma con una decisiva differenza: quelli attuali, quelli che protestano a Zhanaozen, hanno preso coscienza dell’importanza del loro lavoro. Non per la costruzione di un qualunque meraviglioso futuro socialista ma per l’arricchimento delle oligarchie che controllano i Paesi come il Kazakhstan.
Sono, a loro volta, un’oligarchia. Un’oligarchia proletaria, se volete, ma sempre un’oligarchia. In Kazakhstan, con una disoccupazione intorno al 6%, solo il 18% della forza lavoro è impegnato nell’industria. Il 10% più povero della popolazione dispone del 3,8% della ricchezza nazionale e il 10% più ricco arraffa invece il 25%. Il Paese esporta 1,5 milioni di barili di petrolio al giorno e il petrolio (che al 20% va a finire in Cina) vale il 59% degli introiti dello Stato. E lo Stato, a sua volta, è controllato dal 1990 dallo stesso clan, quello del presidente Nursultan Nazarbaev.
Così si consuma in queste ore uno scontro tra i privilegiati di due classi, quella dei poveri (gli operai petroliferi) e quella dei ricchi (i burocrati dello Stato), che lascia indifferente la gran massa della popolazione. Un altro segnale dell’irrisolta transizione post-sovietica.