“Il nemico vuole piegare la nazione iraniana con l’arma delle sanzioni… ma i suoi aggressivi propositi saranno respinti dalla jihad economica”. Così, pochi giorni fa, si è espresso l’ayatollah Ali Khamenei, guida suprema della Repubblica islamica dell’Iran. Non c’è da stupirsi: è stato proprio lui a dichiarare il 2011 l’anno della “jihad economica”, quindi… Stupisce un po’ di più, invece, scoprire che un più tecnico e sobrio apprezzamento arriva anche dal Fondo Monetario Internazionale, tempio del capitalismo e istituzione dominata dagli Usa. Com’è possibile?
Serve a questo punto il classico passo indietro. L’economia dell’Iran contemporaneo ha attraversato fasi ben precise.
- Tra il 1960 e il 1978 (gli anni dello Shah), l’alto prezzo del petrolio, con relativi guadagni, consentì al regime di gettare le basi di una moderna economia industriale. Al prezzo, però, di disuguaglianze infine divenute intollerabili e di una distanza città-campagne abissale.
- Negli anni Ottanta, cioè subito dopo la presa di potere dell’ayatollah Khomeini (1978), la guerra con l’Iraq e le sue conseguenze in pratica amputarono l’Iran di un intero decennio. Un milione di morti, 100 miliardi di dollari in costi diretti e 1 trilione (un milione di miliardi) di dollari in mancata crescita economica, questo in estrema sintesi il prezzo del conflitto.
- Gli anni Novanta: quelli del recupero Dal 1990 al 2005 il Prodotto interno lordo crebbe in media del 7% l’anno e tra il 1990 e il 2010 il valore del Pil passò da 84 miliardi di dollari a 844 miliardi di dollari. Il prezzo del petrolio, almeno in una prima fase, fu di nuovo decisivo per la crescita.
I risultati non sono mancati. Il numero dei poveri è calato, la protezione sociale si è allargata, il divario tra la popolazione urbana e quella rurale si è ridotto, alcune eccellenze sono state generate: l’Iran è oggi tra i primi 20 Paesi al mondo per produzione scientifica ed è tra i Paesi leader in settori come le nanotecnologie e le cellule staminali. Secondo Goldman Sachs, infine, il Pil dell’Iran potrebbe essere il dodicesimo del mondo entro il 2025. Ovviamente, non è tutto oro quel che luccica: i disoccupati sono al 15%; i sussidi statali al prezzo dei generi alimentari, dell’energia elettrica e dei carburanti (che costano meno dell’acqua in bottiglia) hanno appensantito il bilancio dello Stato (con un costo tra i 60 e i 100 miliardi di dollari l’anno, pari a un quarto del Pil nazionale), distorto il mercato, generato inflazione. E poi le sanzioni economiche: secondo alcuni calcoli, l’Iran potrebbe averci rimesso 60 miliardi di dollari nel solo settore petrolifero.
Il primo mandato presidenziale di Ahmadinejad ha veleggiato sulle vecchie teorie. Con il secondo l’aria è cambiata, fino appunto al lancio della “jihad economica”. Meno sussidi, un più rigoroso controllo della moneta, privatizzazioni (a cominciare dai due giganti statali dell’automobile, Saipa e Iran Khodro), briglie più sciolte sulle aziende locali.
Inevitabilmente, è calata la scure sulla politica dei sussidi. I prezzi di molti generi di necessità e di consumo (prima fra tutti la benzina) sono cresciuti anche di 20 volte. Per ammorbidire lo shock, il Governo ha creato un fondo (destinato al 50% alle famiglie, al 30% agli esercizi commerciali e al 20% per le imprese statali) che versa regolari somme di denaro per compensare l’aumento dei prezzi nella fase di transizione. A quanto pare funziona: l’inflazione è in calo, lo Stato spende meno, le aziende hanno meno vincoli. Per dirla con il Fondo Monetario Internazionale: “(le riforme) dovrebbero produrre un netto miglioramento nel medio termine con la razionalizzazione del consumo di energia, maggiori entrate dalle esportazioni e un rafforzamento generale della competività”.