ERDOGAN, DOPO I GENERALI… I CURDI

Quattro comincia a essere un numero magico nella storia contemporanea della Turchia. Quattro i colpi di Stato dei militari: 1960, 1970 e 1980, più quello senza spargimento di sangue ma ugualmente efficace che nel 1997 portò alle dimissioni del Governo guidato da Necmettin Erbakan e dal partito islamista Refah. Quattro i generali che hanno presentato le dimissioni in segno di protesta contro la politica del premier Erdogan: il capo di Stato Maggiore Işik Koşaner e i comandanti di esercito, marina e aeronautica. Quattro i giorni passati prima che il capo di Stato Gül  nominasse il capo della Gendarmeria, Necdet Özel, al rango di capo dell’esercito e sostituto in pectore di Koşaner, chiudendo così lo psicodramma militare.

Una delle ultime immagini pubbliche del premier Erdogan con il generale Işik Koşaner, dimessosi per protesta.

Della vicenda sono state date molte interpretazioni. I militari accusano il Governo di tenere in galera circa 200 ufficiali (dei quali una ventina sono generali) nell’ambito dell’inchiesta sul cosiddetto Piano Balyoz (Martello pneumatico), presunto progetto per rovesciare il Governo legittimo del Paese con una serie di azioni (abbattimento di voli di linea turchi, bombe nelle più grandi moschee del Paese e così via) di spaventosa violenza. Il Piano risalirebbe addirittura al 2003, gli arresti sono del 2010, la detenzione degli ufficiali prosegue anche se molti di loro non sono nemmeno arrivati all’udienza preliminare. Al contrario, le accuse si moltiplicano: pochi giorni fa, 22 ufficiali già detenuti (di cui 6 generali) sono stati ufficialmente accusati di aver messo in atto un piano di “terrorismo psicologico”, attivo ancora nel 2010, per spargere notizie anti-governative attraverso una serie di siti web e di reportage costruiti ad arte.

Le dimissioni dei quattro comandanti in capo, la reazione pronta del Governo, la calma con cui il popolo turco ha seguito l’intera vicenda, sono in realtà la prova che la Turchia sta diventando un Paese normale. La mossa dei generali, anzi, è sembrato il gesto disperato di una “corporazione” (quella, appunto, militare) che per mezzo secolo ha tenuto in mano il potere reale e che ora se lo sente inesorabilmente sfuggire. Da questo punto di vista, quasi un suicidio, un hara kiri arrivato dopo che nel 2007 gli stessio generali avevano cercato di mandare a monte, senza riuscirvi, l’elezione al rango di Presidente di Abdüllah Gül, già ministro degli Esteri (2003-2007) e vecchio compagno di lotta politica del premier Erdogan.

Nel braccio di ferro tra militari (che si considerano i tutori della laicità dello Stato) ed Erdogan (musulmano e convinto fautore di uno Stato dal moderato islamismo), che va avanti dal 2002 (cioè da quando Erdogan è diventato primo ministro), è il politico a vincere, non v’è dubbio. Erdogan ha ottenuto in giugno il terzo mandato consecutivo a governare con il 50% circa dei voti, e superando con abilità questa crisi ha forse chiuso per sempre l’epoca in cui un veto dei generali poteva paralizzare qualunque decisione.

Una manifestazione di protesta della minoranza curda per i "desaparecidos" durante la repressione turca del terrorismo curdo.

Tra i retroscena di quest’ultima battaglia per il potere, però, ve n’è uno di grande importanza per gli equilbrii internazionali. Il generale Őzel, lanciatissimo sulla strada per diventare il nuovo capo di Stato Maggiore, è noto in Turchia per le sue posizioni a favore della riconciliazione con i curdi. Già questa è una novità importante: non molti anni fa un atteggiamento di questo genere gli avrebbe precluso molte possibilità di carriera, almeno a certi livelli.

Va considerato, inoltre, che alle elezioni di giugno hanno potuto presentarsi i candidati degli indipendentisti curdi (Partito della pace e della democrazia), che in un primo tempo erano stati esclusi e che hanno invece ottenuto un ottimo successo: 6,65% dei voti e 36 seggi in Parlamento, 10 seggi in più rispetto alle elezioni del 2007. Per Erdogan (che ha portato il suo partito al 49,9%) la vera sfida è qui: annullata l’intransigenza militarista dei generali, ora si tratta di arrivare a un accordo con la minoranza curda, superando decenni di violenze reciproche. Sarebbe un risultato clamoroso. Sul piano internazionale, servirebbe a calmare una regione sempre infiammata, visto che corpose minoranze curde si trovano in Siria, Iraq e Iran. Dal punto di vista interno, potrebbe portare la Turchia sulla strada di un più effettivo rispetto dei diritti democratici dei cittadini e, sia pure nel lungo periodo, renderle più facile la tanto agognata prospettiva di un avvicinamento all’Unione Europea.

 

 

 

 

 

Fulvio Scaglione

Mi chiamo Fulvio Scaglione, sono nato nel 1957, sono giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 sono stato vice-direttore del settimanale "Famiglia Cristiana", di cui nel 2010 ho anche varato l'edizione on-line. Sono stato corrispondente da Mosca, ho seguito la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, poi l'Afghanistan, l'Iraq e i temi del Medio Oriente. Ho pubblicato i seguenti libri: "Bye Bye Baghdad" (Fratelli Frilli Editori, 2003) e "La Russia è tornata" (Boroli Editore, 2005), "I cristiani e il Medio Oriente" (Edizioni San Paolo, 2008), "Il patto con il diavolo" (Rizzoli 2017).

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