Non se ne parlava quasi più, perché l’attenzione è concentrata su altri fronti del Medio Oriente. Ma la tensione in Iraq resta alta e gli attentati sono sempre numerosi e micidiali. Il 27 aprile, 3 poliziotti uccisi a Kirkuk. Il 5 maggio, 3 morti a Hilla. Il 3 giugno, 17 morti a Tikrit per una bomba all’uscita dalla moschea. Altri 3 morti il 25 luglio in diverse località e 17 morti, di nuovo a Tikrit, il 28 luglio. Ieri la bomba, come quasi sempre nascosta in un’automobile, è esplosa a Kirkuk, presso la chiesa siro-cattolica della Sacra Famiglia. E un secondo ordigno, piazzato accanto a una chiesa luterano-evangelica in pieno centro città, è stato disinnescato appena in tempo.
Siamo nella diocesi di monsignor Louis Sako, proprio l’arcivescovo che nel novembre scorso, alla vigilia della Giornata di preghiera e solidarietà per i cristiani in Iraq organizzata dalla Cei, aveva lanciato un chiarissimo appello: “Non lasciateci soli in questo tempo di tribolazione… L’Italia e l’Europa non possono voltarsi dall’altra parte perché è in gioco la libertà religiosa che costituisce la base per qualsiasi altra forma di libertà”. Nel testo dell’appello, monsignor Sako ricordava anche i fatti: “Dal 2005 a oggi 900 cristiani sono morti, fra loro 5 preti e l’arcivescovo di Mosul, e 52 chiese sono state attaccate”. Quanto è successo a Kirkuk, a dispetto del fatto che la città sia una delle più tranquille del Paese, rientra dunque nella norma, non è un’eccezione per cui provare stupore. Il che, ovviamente rende ancor più drammatico l’accaduto.
L’attentato, che ha fatto molti feriti ma per fortuna nessuna vittima, arriva in un momento delicato dal punto di vista religioso. Tra due giorni comincerà il Ramadan, il mese di digiuno e preghiera sacro ai musulmani. E meno di un mese fa, proprio a Kirkuk, è stata inaugurata la prima chiesa costruita dopo l’invasione americana del 2003: sorge fuori dalle mura della città, nella parrocchia cui è stato dato il nome di “Tre fontane”, su un terreno offerto gratuitamente dagli abitanti del vicino villaggio, che ospita circa 200 famiglie.
Simbologie religiose sempre presenti e spesso pesanti. Non possiamo dimenticare, però, che Kirkuk è da anni anche al centro di ben più terrene speculazioni. La città, che ha 900 mila abitanti, sorge in una zona ricca di giacimenti petroliferi e su cui corre l’oleodotto che la collega alla raffineria di Baiji, la più importante dell’Iraq. Per questo è sempre viva la lotta tra arabi, turcomanni e curdi per il controllo della città. I curdi la vorrebbero annessa al vicino Kurdistan, di fatto ormai semi-autonomo da Baghdad, mentre turcomanni (assistiti dalla Turchia, ostile ai curdi) e arabi vogliono conservare il legame con l’amministrazione statale centrale. Uno scontro cruento, con enormi ricchezze e leve di potere in palio, che ha di fatto bloccato qualunque iniziativa del Governo iracheno, troppo debole per imporre una qualunque soluzione e troppo dipendente dal petrolio per mettere in discussione lo status della regione.
Pubblicato su Avvenire del 3 agosto 2011