Proiettarsi in un’altra dimensione, immaginare realtà diverse, in una parola “sognare”, è inclinazione naturale dell’animo umano. Ed è pure una specie di diritto, come dicono la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti (dove la “ricerca della felicità” è valore pari alla vita e alla libertà) e, forse, la nostra Costituzione (articolo 3, sulla “piena realizzazione della persona”).
Normale, dunque, che molti si ritrovino intorno ai matrimoni reali o principeschi. Le nozze di Kate e William, e poi quelle di Charlene e Alberto di Monaco, hanno regalato a milioni di persone un pizzico di fiaba, carrozze e limousine, star del cinema e capi di Stato. Il “quarto d’ora di celebrità”, per interposto video, che quel volpone di Andy Wahrol, re della pop art, riteneva essere il sogno di tutti.
Negli Usa, che non hanno reali e infatti se li sognano, dal giorno dell’annuncio alla cerimonia le notizia su William e Kate si sono prese il 3% dello spazio su tutti i Tg. Le nozze hanno avuto 28 milioni di spettatori (su 150 milioni di abitanti) su 11 canali televisivi. E Webtrends, società di analisi del traffico Internet, ha calcolato che al real sposalizio, quel giorno, era dedicato il 38,1% del traffico dei tre maggiori social network, più del disastro alla centrale atomica di Fukushima (37,7%) e delle rivolte per la democrazia in Egitto (24,2%), gli altri due “eventi” del 2011.
“Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni”, avvertiva però un altro William, uno che di fantasia ne capiva e di cognome faceva Shakespeare. Perché i sogni raccontano ciò che vogliamo ma soprattutto ciò che siamo. Fantasticare su due giovani ragazzi di una vecchia dinastia in crisi, o sul matrimonio di un attempato signore che conta e riconta i figli illegittimi, potrebbe voler dire che siamo messi male, che abbiamo perso le ali.
Sognare per sognare, e se provassimo a sognare in grande? Anche perché spacciando sogni e promettendo miracoli a buon prezzo si può prendere tanta gente per il naso, anche per lungo tempo. I sogni belli e grandi, se non altro, sono più difficili da spacciare.
Pubblicato su Famiglia Cristiana numero 29/2011